In tempo di crisi, capita spesso che i numeri sull’andamento dell’economia non piacciano ai governi. In Italia si cerca di oscurare i dati più importanti con una marea di indicatori parziali, non poche volte irrilevanti o costruiti in modo tale da essere del tutto fuorvianti. E si rifiuta il sistema con cui l’Istat mette insieme tutte le informazioni in indicatori aggregati. Noi continuiamo a difendere le fonti statistiche ufficiali e a pensare che i dati sui redditi medi offrano un’idea più precisa del benessere degli italiani di quelli sulle esportazioni.
Al convegno di Confindustria di Parma, il nostro presidente del Consiglio ha contestato le cifre fornite nella relazione introduttiva di Luca Paolazzi che documentavano, dati Istat alla mano, il declino economico del nostro Paese: un calo del 4,1 per cento del reddito pro-capite degli italiani dal 2000 al 2009.
Silvio Berlusconi ha snocciolato una serie di numeri prodotti dalla Fondazione Edison, che pare abbia deciso di assumere tra le sue funzioni quella di elaborare statistiche da contrapporre ai dati Istat sull’andamento del prodotto interno lordo. I numeri riguardano principalmente le esportazioni manifatturiere dell’Italia nel periodo 2005-8. Si tratta di dati da utilizzare con cautela perchè parziali, potenzialmente fuorvianti e poco rilevanti, se non del tutto irrilevanti. Vediamo perché.
Sono dati parziali
Il presidente del Consiglio ha sottolineato il grande numero di prodotti per i quali le imprese italiane sarebbero “leader” mondiali. In effetti, la Fondazione Edison pubblica quaderni pieni di cifre oltre che colori con un indice (il cosiddetto indice Fortis Corradini, che proporremmo di ribattezzare medagliere azzurro) basato sul numero di prodotti in cui l’Italia figura nei primi tre posti al mondo fra i paesi esportatori. Sarà anche vero, e questi prodotti saranno anche tanti, ma quanto pesano? L’Italia è da decenni leader in tante nicchie di mercato. Nicchie, appunto; ma purtroppo una cosa sarebbe essere leader nella produzione di fiammiferi, un’altra è esserlo nella produzione di auto. Se uno conta i prodotti, vede un pareggio (1 a 1); ma il valore di questi settori è ben diverso. Anche per evitare questi problemi, generalmente si guarda a grandezze quali il Pil. Discutibile è anche la scelta di concentrarsi sulle sole industrie manifatturiere quando ormai la parte preponderante dell’economia è costituita dai servizi e il commercio mondiale in questo settore cresce quanto se non di più che nel manifatturiero.
Potenzialmente fuorvianti
Oggi pare che ciascuno si senta in diritto di utilizzare dati diversi, ovvero quelli che gli fanno più comodo. Ad esempio, il presidente del Consiglio ha parlato di un primato italiano nella crescita delle nostre esportazioni nel periodo 2005-8 rispetto agli altri paesi dell’area euro e, in particolare, Francia e Germania. La fonte dei dati sulle esportazioni italiane richiamati dal presidente del Consiglio è una pubblicazione Onu-Comtrade (“2008 International Trade Statistics Yearbook”, Tavola I). In questa pubblicazione i dati sono in dollari e, considerando che il 60 per cento delle esportazioni implicate riguardano paesi euro o Unione Europea, la conversione in una valuta che si è deprezzata nel periodo del 18 per cento produce tassi di crescita artificialmente “alti” e può introdurre distorsioni. Perché non considerare dati nella nostra valuta? Inoltre, i numeri sul primato dell’Italia (di fonte Onu, non proprio l’organizzazione maggiormente votata alla produzione di dati economici) non trovano conferma in altri fonti statistiche di utilizzo più comune, quali la banca dati del Wto o i dati degli istituti di statistica nazionali, ma neppure negli stessi dati Comtrade nella versione on-line. La Germania è sempre davanti all’Italia in queste statistiche; è vero che non è un campionato di calcio, ma forte è la sensazione che si vogliano a tutti i costi cercare i dati “migliori”.
Sono dati poco rilevanti
Infine, ci interessano veramente le esportazioni? Sono importanti, per carità, ma è sbagliato prendere la crescita dell’export come un indicatore di competitività di un Paese, ignorando i dati sulle importazioni. Purtroppo, nello stesso periodo preso come riferimento dal presidente del Consiglio, Istat ci informa che le importazioni sono aumentate più delle esportazioni, peggiorando il saldo commerciale del nostro paese; e le cose vanno ancora peggio guardando al periodo 2000-2009. Il fatto è che il nostro export ha un crescente contenuto di importazioni. Utile semmai guardare al valore aggiunto contenuto nelle nostre esportazioni. Non c’è peraltro nulla di cui gioire da un incremento del nostro commercio col resto del mondo (la somma di esportazioni e importazioni): può, ad esempio, essere dovuto al fatto che le nostre imprese stanno spostando la produzione da qualche altra parte e quindi il commercio aumenta di volume, in uscita come in entrata. È come se un allenatore di calcio cercasse di convincere i tifosi e il presidente della sua squadra circa la bontà dei risultati conseguiti mostrando solo i goal segnati e non quelli subiti.
Dal silenzio all’inflazione di informazione
Un apese che vuole uscire più rapidamente possibile dalla crisi più profonda del Dopoguerra ha bisogno di avere degli indicatori su cui misurare il progresso che compie in questa direzione, darsi dei traguardi, degli obiettivi da raggiungere. Una democrazia ha bisogno che i politici rispondano del loro operato di fronte agli elettori sulla base di metriche condivise. Hanno contribuito ad aumentare la ricchezza nazionale? Hanno migliorato il benessere dei cittadini?
In Italia è in atto da tempo un’operazione ideologica volta a minare alla base questi presupposti. In un primo tempo era basata sulla denigrazione delle statistiche. Oggi è più subdola: si basa sull’inflazione statistica. Si cercano di oscurare i dati più importanti sull’andamento della nostra economia con una marea di indicatori parziali, non poche volte irrilevanti, e non poche volte costruiti in modo tale da essere del tutto fuorvianti. Si rifiuta il modo con cui le statistiche ufficiali, prodotte dall’Istat, mettono insieme tutte queste informazioni in indicatori aggregati. Col risultato che si rende impossibile a un pubblico già di per sé poco avvezzo alle statistiche riuscire a capire il significato dei dati.
È grave che un commentatore quale il direttore del Sole-24Ore salti sul carro di chi afferma che “la matematica è un’opinione”. Se tutti i numeri vanno bene, allora a cosa servono i buoni giornalisti? Capiamo che in un periodo complesso prendere posizione sia delicato. Noi continuiamo a difendere le fonti statistiche ufficiali e a pensare che i dati sui redditi medi offrano un’idea più precisa del benessere degli italiani dei dati sulle esportazioni. Nell’ultimo anno molti governi di paesi che hanno sofferto forti cali del prodotto interno lordo hanno insediato commissioni di studio col compito di definire misure alternative (e possibilmente con andamenti “migliori”) al Pil. Ma in nessuno di questi voli pindarici per nascondere la realtà si era arrivati a proporre le esportazioni come misura del benessere.
Tito Boeri e Carlo Scarpa, redattori della “lavoce.info“