E’ ben noto a chiunque che nella Funzione Pubblica la corruzione alligna sempre più.
In magna pompa la stessa casta dei magistrati lo ha confermato proprio in questi
giorni.
I buoni osservatori della vita sociale sanno però che non esiste la sola corruzione economica, finanziaria, fatta di mazzette di denaro e vari altri indegni emolumenti, di cui si soffermano a parlare i giudici. Esiste pure un’altra corruzione, perfino più dannosa perché ovunque ed in profondità essa sparge i suoi malefici effetti e
silenziosamente apre la strada all’altra. Questa corruzione è quella di una cultura che è rimasta ostaggio di un sistema finto pubblico, un’autentica proprietà privata degli statali, degli assunti a vita in ruoli che appartengono però alla collettività, all’intero popolo italiano, del quale antidemocratico sistema le
Università in mano a baroni e baronesse sono tassello centrale e fautrici primarie.
Di questa corruzione culturale la congrega dei magistrati non tratta, avendovi essa stessa un ruolo importante. Hanno forse mai evidenziato, tali paludati giudici a vita, che con la loro pompa cercano invano di acquistare quella stima che in ben altro modo modeste e capaci persone si guadagnerebbero, il fatto che la popolazione
viene metodicamente addomesticata, controllata, giudicata e repressa, oltre che gabellata, da una minoranza chiusa nei suoi privilegi, da un ordine elitario che sessantatrè anni fa non avrebbe dovuto sopravvivere alla caduta dell’apice della dittatura fascista perché proprio di quel regime esso era l’autoritario corpo
burocratico, conservandosi tutt’oggi pressoché immutato nella sua concezione, piglio e struttura?
Hanno forse mai messo in discussione, tali ampollosi personaggi, il fatto che noi comuni, noi semplici, insignificanti cittadini qualsiasi, noi che NON siamo statali, noi che non ci siamo appropriati a vita di un ruolo, di un potere, di un reddito pubblico, veniano giudicati da gente che non conosce, che mai esperisce l’impotente,
sconsolata sottomessa vita che invece noi ci tocca massivamente quotidianamente vivere?
Come si può ammettere, signore e signori Giudici, che i cittadini siano ancora oggi osservati, pesati, vagliati, criticati e puniti da una confraternita di persone che, accettando un ruolo pubblico a vita, si sono automaticamente trasformate in despoti, visto che proprio nella periodica restituzione al popolo di ciò che è pubblico si configura il carattere essenziale della Democrazia? Non sarebbe forse giusto, logico
e dovuto che noi stessi cittadini selezionassimo tra noi periodicamente dei probiviri incaricati di compiere le loro valutazioni su fatti accaduti a loro simili e terminato che fosse un tempo opportuno di attività se ne tornassero ad altre di diversa natura per non fossilizzarsi, irrigidirsi, corrompersi in un ruolo che andrebbe ricoperto da gente sempre fresca, capace di stupirsi ed indignarsi per l’eventuale schifo che vi si fosse accumulato?
Se invece che alla vostra casta di assunti a vita la giustizia fosse affidata a rotazione a cittadini preparati forse non diminuirebbe l’esorbitante numero di leggi, spesso arzigogolate ed ignote perfino a chi ha la spudorata pretesa di applicarle con una dose zero di tolleranza, cui noi donne ed uomini qualunque
dobbiamo sottostare sotto la minaccia delle armi di vostri colleghi assunti anch’essi a vita in ruoli che la definizione stessa di pubblico avrebbe dovuto, fin dal primo vagito della nostra Res Publica, far divenire oggetto di condivisione? Che forse, venendo la giustizia gestita da noi coinvolti cittadini, non scomparirebbe
immediatamente l’oceano di scartoffie che invece sommerge voi? Non scaricate responsabilità che son innanzitutto vostre su politici che non vi piacciono. I politici tutti sono figli di quella stessa finzione ed incultura che affliggono le Università ed il loro superficiale operato proprio in esse trova la sua genesi.
Le Università divengano allora fucina catalizzatrice di quella continua maturazione umana e sociale, di quella evoluzione, di quel consapevole mutamento che rappresentano il senso stesso della parola cultura. Per tutto ciò ai baroni, ai giudici, agli statali tutti giunga pacificamente, legalmente, civilmente questo messaggio: gradite uscire ordinatamente fuori dai Pubblici Uffici, dai nostri Uffici, dagli Uffici che appartengono al popolo italiano e per questo da esso e non più da una sua minoranza spocchiosa meritano di essere gestiti.
Uscite dai Pubblici Uffici e cercatevi qualcosa di buono da fare. Ma non cercatelo più nel settore pubblico, di certo non per ora. Chi gli altri ha escluso non può che a sua volta venire escluso. Trovatevi invece finalmente un lavoro produttivo nel modo in cui lo fa la gente comune, in cui lo facciamo tutti noi che mai nulla abbiamo contato. Vivete la nostra vita. Così capirete cosa vuol dire essere sudditi.
E se non vi piacerà, così come non è piaciuto a noi, affermate anche voi a gran voce i due sacrosanti principi della Democrazia:
1) quanto di pertinenza e proprietà della Collettività va condiviso,
2) quanto di pertinenza e proprietà della Persona va rispettato.
Gridate anche voi:
MAI PIU’ STATALI, MAI PIU’ ASSUNTI A VITA IN RUOLI PUBBLICI!
LARGO INVECE A SEMPLICI CITTADINI COMPETENTI A ROTAZIONE!
Solo allora guadagnerete quel diritto di cui ci avete privato per 63 anni.
Danilo D’Antonio
all’ombra del Gran Sasso
il giorno 27/02/42
col cuore rivolto a coloro
che si trovano prigionieri
in carceri inumane solo per esser nati
in una società mantenuta antipartecipativa
e retrograda dagli statali