L’idea mi è venuta leggendo la notizia secondo cui la Volkswagen, il colosso tedesco che fabbrica e vende macchine, l’anno scorso, ha macinato ricavi per 159 miliardi di euro, quasi tre volte Fiat-Chrysler, con profitti per 15, 8 miliardi, più che raddoppiati rispetto al 2010. C’è di che stupirsi. Come mai “loro”, nel mondo delle auto, riescono così bene a vendere i loro prodotti, mentre, noi, all’opposto, siamo qui a scontrarci con l’articolo 18?
Leggo ancora meglio l’articolo e così vengo a sapere che dalla immensa fabbrica di Wolfsburg escono 800 mila auto all’anno, circa 100 mila più di quanto produce in totale la Fiat nei suoi cinque impianti italiani. Ma non era la stessa fabbrica che appena otto anni fa rischiava il tracollo finanziario? Dove sta allora la formula che rilancia il prodotto in tutto il mondo? Riprendo dall’articolo : “I lavoratori, quelli dei sei stabilimenti Volkswagen, sono al centro di un sistema di welfare, dentro e fuori la fabbrica, che da noi, per molti aspetti, è ormai un lontano ricordo. Per non parlare degli stipendi. La paga base di un operaio si aggira, al netto di tasse e contributi, sui 2. 700 euro, ma con qualche ora di straordinario è facile arrivare a quota 3 mila. In altre parole, a Wolfsburg il lavoro alla catena di montaggio è pagato all’incirca il doppio rispetto a Mirafiori o nelle altre fabbriche Fiat. Qui in Sassonia, nell’impianto da 51 mila dipendenti compresi gli amministrativi e un esercito di ricercatori, tutto si muove esattamente nella direzione opposta a quella indicata da Sergio Marchionne alla Fiat. È il mondo alla rovescia rispetto al verbo della fabbrica normalizzata e obbediente predicato dal numero uno del Lingotto”. C’è di che pensare, a proposito della formula applicata da noi. Non è che si debba peccare di presunzione di arrivare a “trasferire” in Italia il modello attuato a Wolfsburg, cittadina che non supera i 120 mila abitanti in Bassa Sassonia, luogo dove Hitler nel 1938 decise di costruire il primo nucleo dell’industria automobilistica di Stato. No, questo no: ma mi sembra che sia significativo e rilevante il successo della formula per non parlarne.
Allora non sarebbe il caso di riformulare le nostre questione e coinvolgere gli stessi operai attorno ai progetti di fabbrica in modo tale che se la formula ha successo, gli introiti saranno equamente distribuiti? Un insegnamento e un’indicazione che ci pare saggio e doveroso segnalare per evitare di perderci dietro fastidiose e forse inconcludenti diatribe, quando invece bisogna badare al sodo della questione. Che sia la formula della “compartecipazione” a essere il vero motore dell’economia? Non si darebbe allora il caso di meditarci un po’ più sopra?