Il Consiglio nazionale delle ricerche riprende la redazione della ‘Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia’ che fornisce a Governo, Parlamento e opinione pubblica analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia. “La comunità scientifica lamenta la scarsità di risorse a propria disposizione, mentre decisori politici e opinione pubblica sono sempre più esigenti e si domandano in che misura la scienza e la tecnologia contribuiscano allo sviluppo economico e sociale del paese”, osservano Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi del Dipartimento scienze umane e sociali, patrimonio culturale (Dsu) del Cnr, che hanno curato il documento. “In tale scenario, la Relazione intende offrire alcuni dati su cui ragionare e tenta di tradurre le statistiche in implicazioni per le politiche per la scienza, la tecnologia e l’innovazione: un lavoro non banale né immediato”.
In Italia il rapporto tra spesa per R&S e PIL è passato dall’1,0% del 2000 all’1,3% del 2015, ma siamo ancora in fondo alla classifica dei paesi europei. La spesa per R&S finanziata dal Governo in percentuale al PIL è rimasta stazionaria, di poco superiore allo 0,5% del PIL, e gli stanziamenti del Miur agli Enti pubblici di ricerca sono calati dai 1.857 milioni del 2002 ai 1.483 milioni del 2015: il Cnr, in particolare, ha subito una riduzione da 682 milioni a 533 milioni.
Nonostante ciò, il sistema italiano della ricerca mostra segni di vitalità confortanti, attestati dal contributo alla letteratura scientifica internazionale. Dal 2000 al 2016 l’Italia è passata dal 3,2% al 4% della quota mondiale, raggiungendo la Francia. Un risultato ancora più apprezzabile se si pensa che i paesi occidentali hanno visto la propria quota ridursi, in conseguenza dell’imporsi nel panorama scientifico di paesi emergenti, primo tra tutti la Cina. “La posizione dell’Italia è migliorata in Biologia (dove cresce dal 3,7% del totale mondiale del 2000 al 4,5% del 2016), nella Psicologia (dall’1,7% al 2,9%) e nelle Scienze della terra (dal 3,6% al 4,9%). Anche la qualità di queste pubblicazioni, misurata tramite le citazioni medie per articolo scientifico, è in aumento dal 2000 in poi, l’Italia è pari alla Germania e alla Francia e molto vicina al Regno Unito. Destano invece preoccupazione i segnali sulla moderata crescita del personale di ricerca, la caduta dei dottori di ricerca dagli oltre 10 mila del 2007 a meno di 8 mila nel 2016”, aggiungono i curatori.
Qualche dato positivo si registra sui brevetti: in aumento quelli depositati da imprese e autori italiani, ma non in misura sufficiente a tenere il passo con la crescente tendenza a proteggere di più, legalmente, le innovazioni industriali. Tra i settori di punta a livello brevettuale l’ingegneria meccanica, che concentra il 42% delle domande presentate presso l’Ufficio europeo e che è il settore con la crescita più marcata.
Nei design industriali registrati presso l’Unione Europea, ossia i diritti di proprietù intellettuale relativi alle innovazioni di tipo non tecnologico, quali quelle nella progettazione o nei modelli ornamentali, siamo secondi solo alla Germania. È confermata la specializzazione produttiva italiana in settori ad alto contenuto di conoscenza e collegati ai settori tipici del Made in Italy (quali mobili e arredi, illuminazione, cucine), ma che non ricavano il proprio punto di forza dalla ricerca scientifica e tecnologica.
Nel commercio ad alta tecnologia l’Italia resta sotto il 2% delle esportazioni high-tech mondiali, meno della metà della quota francese e inglese e addirittura un quarto di quella tedesca. In negativo anche il mercato farmaceutico: la quota di mercato dell’Italia sulle esportazioni mondiali passa da più del 6% conseguito nel 2000 al 4% del 2016. Cresce invece quella sulle esportazioni mondiali nell’automazione industriale, che passa dal 4,5% al 6,8%.
“L’analisi combinata dei dati concernenti input (la spesa per R&S) e output (pubblicazioni scientifiche, brevetti, commercio hi tech) mostrano la necessità del sistema-paese di valorizzare e moltiplicare meglio l’impatto delle limitate risorse” concludono Archibugi e Tuzi. “Il problema è evidente se si considerano le consistenti risorse messe a disposizione dalle politiche regionali che non hanno avuto un ruolo chiave nel sostegno dell’innovazione. L’Italia deve elaborare una strategia di smart specialization, dove le risorse disponibili, auspicabilmente in aumento, siano destinate ai settori strategici, partendo dalle competenze esistenti e innestandosi nel sistema produttivo”.