È arrivata la Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza). Con 9 miliardi per redditi e pensioni di cittadinanza, 7 per la controriforma Fornero, 1 miliardo per risuscitare i centri per l’impiego e per le assunzioni del ministro dell’Interno Salvini, 2 miliardi per un assaggio di flat tax e 1,5 miliardi per i truffati dalle banche. Un avvio del programma previsto dalla coalizione Lega-M5s, quasi del tutto finanziato in deficit. Intanto, mentre noi ci guardiamo l’ombelico, il mondo va avanti e i margini di manovra – della manovra, per l’esattezza – si restringono. La cattiva notizia che fa da sfondo alla legge di bilancio italiana è quella battuta dalle agenzie nella mattinata di giovedì 4 ottobre. I rendimenti dei titoli pubblici decennali americani sono saliti sopra il 3 per cento, al 3,2 per cento per la precisione, tornando ai livelli toccati per l’ultima volta sette anni fa nel giugno 2011. I tassi americani sono spinti all’insù dall’accelerazione dell’economia Usa nella quale – grazie a un ottimo secondo trimestre – la crescita annua è arrivata a sfiorare il 3 per cento. In America ai dati positivi del Pil si somma una disoccupazione inferiore al 4 per cento e una lieve ripresa della partecipazione al mercato del lavoro capace finalmente di controbilanciare i trend demografici negativi. A loro volta, i due dati si associano a un’inflazione vicina al 3 per cento e a una crescita dei salari stabilmente sopra al 4 per cento. Tutti elementi che descrivono un’economia in accelerazione, che si sta surriscaldando per la prima volta da tanti anni e che ha indotto la Federal Reserve e il suo presidente Jerome Powell a ritenere probabile un altro aumento del federal funds rate, il tasso di riferimento per i mercati finanziari americani, entro la fine di quest’anno e altri tre incrementi nel 2019. Insomma, dall’altro lato dell’Oceano Atlantico arriva un messaggio forte e chiaro: i tassi di interesse di mercato sono in rapido aumento. L’aumento dei tassi in America porta con sé un probabile drenaggio di capitali dal resto del mondo. Se il paese che offre i titoli pubblici più sicuri del mondo – per l’assunta impossibilità di un default del governo americano – è in grado di garantire un rendimento del 3 per cento a chi compra i suoi titoli pubblici, quale investitore vorrà mai continuare a investire altrove?
Di sicuro, quando in America salgono i tassi parte il contatore delle crisi valutarie e finanziarie nei mercati finanziariamente più deboli. Qualcosa si è già visto in Turchia e Argentina, con valute e borse locali andate a picco e governi e banche centrali presi nel dilemma tra il rialzo dei tassi per difendere il valore del cambio e il timore che questo possa tradursi in una recessione dell’economia. È la ripetizione di un film già visto nei primi anni Ottanta quando la stretta anti-inflazione dell’allora governatore della Fed Paul Volcker fece da detonatore nell’agosto 1982 allo scoppio della crisi del debito latino-americano. In sequenza arrivarono default ripetuti, iperinflazione e crisi economiche intervallate da vittorie e sconfitte dei regimi populisti del sud America di allora: in Argentina (Raul Alfonsin), Brasile (Joao Figueiredo e Jose Sarney) e Perù (Alan Garcia).
L’Europa di oggi non è certo l’America Latina degli anni Ottanta. Ma anche in Europa ci sono paesi più e meno esposti all’instabilità finanziaria. Da inizio anno, di fronte all’aumento del tasso sui titoli pubblici decennali pari a 80 punti base in America, i tassi in Germania, Francia, Spagna e Portogallo non si sono mossi. Quelli greci sono saliti di 50 punti. Solo in Italia, se lo stato vuole emettere titoli a dieci anni paga oggi interessi più alti per 140 punti base rispetto all’inizio del 2018.
È in questo quadro oggettivamente in salita che si colloca la stesura della legge di bilancio italiana. Ed è in questo quadro che il governo ha deciso di aumentare al 2,4 per cento del Pil il deficit nel 2019 – l’anno in cui la Fed prevede tre aumenti di tassi successivi, oltre a quelli già avvenuti – per farlo scendere (dicono) al 2,1 nel 2020 e all’1,8 nel 2021.
Che dire se non che l’obiettivo di dare una frustata all’economia – la cui crescita tendenziale per il 2019, visto il rallentamento della congiuntura internazionale, si colloca probabilmente al di sotto del +0,9 per cento previsto dal governo e dal Centro studi Confindustria – appare un’imprudente mossa autolesionistica?
Francesco Daveri (http://www.lavoce.info)