Perché piacciono tanto, oggi, i miti? A cosa è dovuto questo (felice) risorgere dell’interesse per quelli greci? Per cercare di capirlo cominciamo col ricordare che, come dice il termine che li indica (dal greco mythos, «parola»), i miti sono dei racconti. Più specificamente, dei racconti tradizionali sedimentati nella memoria dei greci nei secoli precedenti ALL’VIII a.c., nel quale adottarono la scrittura alfabetica dei fenici.
A raccontarli dunque (prima che venissero registrati per iscritto, a secoli di distanza) erano i poeti, i famosi aedi e rapsodi che ovunque si raggruppassero degli ascoltatori raccontavano storie di dei e di eroi dai contenuti più svariati,
svolgendo così, accanto a una funzione ricreativa, anche e soprattutto quella, fondamentale, di trasmettere l’insieme delle credenze, dei riti, dei costumi religiosi, sociali e dei valori morali che costituivano il patrimonio culturale di chi li ascoltava.
I miti, in altre parole, trasmettevano di generazione in generazione i codici di comportamento ai quali i membri della comunità che li ascoltava dovevano conformarsi se volevano essere considerati degni di farne parte, creando un insieme di punti di riferimento nei quali quel gruppo poteva riconoscersi, e contribuendo così a consolidarne l’identità. E a dimostrarlo — quasi inutile a dirsi — stanno in primo luogo i poemi omerici, ai quali era affidata la trasmissione dei valori degli eroi partiti alla conquista di Troia: tra i quali ovviamente Achille, l’eroe che incarnava i valori competitivi di un mondo nel quale chi voleva essere nobile (agathòs) non solo di nascita, ma per carattere e valore sociale, doveva imporsi in guerra con la forza delle armi e in pace con la parola. Era un’etica, quella eroica, nella quale cominciavano appena a farsi strada i valori collaborativi che si sarebbero affermati nella polis.
Ma il prototipo dell’eroe era ancora chi, come Achille, era stato allevato con un obiettivo: «Essere sempre il primo e il migliore».
Questo era quello che gli aveva insegnato il centauro Chirone sulle montagne del Pelio, dove era stato mandato perché diventasse «il migliore degli Achei». Non a caso, quando gli era stato dato di scegliere tra una vita lunga, serena ma anonima e una vita breve, stroncata nel fiore degli anni da una morte gloriosa, aveva scelto la seconda: la bella morte sul campo di battaglia, che avrebbe reso immortale il suo ricordo.
Ma, detto questo, non abbiamo ancora risposta alla domanda che ci siamo posti inizialmente: a cosa è dovuta l’attuale popolarità del mito e la sua continua rivisitazione? Come è possibile e perché mai un personaggio come Achille è ancora un mito? Diciamoci la verità: un uomo violento, prepotente, crudele («Achille la bestia», lo chiama Christa Wolf), mosso dal desiderio di soddisfare un amor proprio narcisisticamente coltivato. Non sto certo facendo considerazioni personali né dicendo qualcosa di nuovo: come scriveva Vico nella Scienza nuova, i «costumi» degli eroi, «rozzi, villani, feroci, mobili, irragionevolmente ostinati… non possono essere che d’uomini per debolezza di mente quasi fanciulli, per robustezza di fantasie come di femmine…»
Ma dopo averli così definiti, Vico aggiungeva che quei costumi, tanto «sconvenevoli in questa nostra civil natura», erano «decorosissimi in rapporto alla natura eroica de’ puntigliosi». Una interessantissima affermazione che ci induce a riflettere (in un momento in cui ce n’è un bisogno estremo) sulla necessità di non valutare tutto solo sull’oggi e sul qui, e ci ricorda che questa è sempre stata e continua a essere la funzione e la forza del mito: condurre chi lo ascolta in un tempo fuori del tempo, dove problemi apparentemente lontani tornano a riproporsi in modi diversi, per analogia o per opposizione, aprendo la nostra mente a concezioni della vita e del mondo meno limitate e provinciali di quelle alle quali i tempi sembrano volerci abituare. E aiutandoci, con questo, a progettare il futuro. (da “Il Corriere della Sera“, 22 marzo 2019)