Mettere le mani nelle cassette di sicurezza degli italiani

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Tanti contanti che non circolano

Nessuno sa a quanto ammontino, ma tutti ritengono siano tanti. Le stime sui contanti nascosti concordano su una dimensione largamente superiore a 100 miliardi di euro. Meglio occuparsene che non farlo, dice Francesco Greco, titolare della pubblica accusa a Milano. Sì, ma come?
Chiariamo innanzitutto di che cosa si parla. Un conto sono, infatti, i depositi nelle cassette di sicurezza; un altro sono i contanti in sé. Le cassette di sicurezza hanno il vantaggio di offrire una traccia sicura, quantomeno nel tempo di loro creazione e, magari, anche la data degli accessi successivi. E il difetto di poter essere state costituite da soggetti anche terzi rispetto ai titolari del relativo contenuto. La precedente normazione al riguardo (art. 5-octies, comma 3, della legge 227/1990, come modificata dall’art. 7 del decreto legge 193/2016) ipotizzava l’apertura della cassetta alla presenza di un notaio che ne facesse risultare, con una propria relazione, il contenuto. Questa strada, se seguita anche oggi, consentirebbe di constatarne il contenuto al momento della sua apertura nell’ipotizzato periodo di sanatoria.
Senza voler indulgere in approssimativi psicologismi pare utile, a questo punto, distinguere fra chi utilizza la cassetta per depositare gioielli e chi vi detiene denaro contante. Nel primo caso – indipendentemente dalla limpidezza della fonte da cui la ricchezza proviene – vi sarà scarso interesse alla sanatoria (i gioielli possono continuare a essere utilizzati alla bisogna e poi riposti nella cassetta senza particolari timori). Nel secondo caso l’interesse sarà molto maggiore perché il contante “pulito” diviene immediatamente utilizzabile anche per attività sostanzialmente commerciali. Aumenterebbe, quindi, la massa monetaria in effettiva circolazione. Se la relativa consistenza trovasse conferma, si può ragionevolmente ipotizzare che ne risentirebbero in positivo sia gli investimenti che i consumi. Sul piano squisitamente economico, dunque, la sanatoria avrebbe svariate ragioni per apparire appetibile. E l’avrebbe altresì sul piano della trasparenza perché se ne vedrebbe la circolazione alla luce del sole.
Diversa è la situazione in cui si volesse sanare, invece, il mero possesso di contanti al di fuori di qualsiasi circuito “ufficiale”. L’ipotesi era ricompresa nella precedente proposta, ma la sua concreta applicazione si scontrava con un ostacolo ritenuto perlopiù insuperabile: la dimostrazione di possesso del contante entro una certa data (fissata nel Dl 193/2016 nel 30 settembre 2016). Certo, la dimostrazione poteva passare attraverso altri canali: ma è evidente che sarebbe stata accompagnata da eccessive incertezze che ne hanno, nei fatti, scoraggiato l’adozione. Un maggiore impegno su questo terreno avrebbe avuto senso.

La necessaria trasparenza

Il precedente provvedimento si associava all’esonero da sanzioni penali ove le violazioni che ne accompagnavano la condotta fossero di natura esclusivamente tributaria. Il che vuol dire che nessun colpo di spugna si sarebbe verificato ove la condotta – anche grazie alle indicazioni da fornire obbligatoriamente in sede di sanatoria – fosse stata successivamente attribuita a reati diversi da quelli tributari. Esso prevedeva, poi, il pagamento integrale delle imposte dovute con sconto sulle sanzioni amministrative e con possibile (sostanziale) forfettizzazione del conto al 35 per cento. Ma ebbe, in conclusione, scarso successo.
Che cosa fa pensare che oggi il successo potrebbe essere maggiore? Taluni attribuiscono l’insuccesso al costo eccessivo dell’operazione. Non sono stati forniti ulteriori dettagli sulla questione e non vi sono, quindi, elementi concreti con cui cimentarsi.
Altri, più sommessamente, imputano l’insuccesso all’eccesso di trasparenza che il provvedimento avrebbe comportato. Ma a quale trasparenza si potrebbe ragionevolmente rinunciare? Non credo si possa prendere in considerazione l’ipotesi di sanare reati diversi da quelli tributari. Se questa fosse l’intenzione, l’oggetto della discussione cambierebbe segno e la questione da valutazione di mero intervento di politica economica dovrebbe lasciare il passo a considerazioni di sistema politico-giudiziario.
Se, invece, la trasparenza cui si vuole rinunciare riguardasse le modalità stesse della sanatoria tornando alla forma dell’anonimato – adottata dai famosi scudi varati da Giulio Tremonti negli anni 2002 e 2008 – si farebbe un davvero non auspicabile salto all’indietro, del tutto incompatibile con un “governo del cambiamento”. Del resto, offrire la sanatoria solo a chi ha da sanare l’ingiustificabile possesso di ricchezza in contanti e valori al portatore – chiedendogli in cambio una piena trasparenza sulle sue fonti – e negarne l’accesso a chi ha scelto altre vie per la conservazione, e magari anche l’impiego, di ricchezza generata da evasione fiscale può apparire in qualche misura incoerente. Chissà che non si pensi che, in fondo, un puro e semplice condono tombale tradizionale – si paga tot indipendentemente dal come sono stati utilizzati i proventi dell’evasione – presenterebbe un volto equitativo che la sanatoria del solo contante non è riuscita a mostrare.

Tommaso Di Tanno, da “LaVoce.it”

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