Un inizio 2020 di crescita instabile sui mercati
È stato un inizio d’anno frizzante per i mercati. Con l’uccisione del capo delle forze paramilitari iraniane Qassem Soleimani ordinata dal presidente americano Donald Trump, già dai primi giorni del nuovo anno sono inaspettatamente ritornati venti di guerra in Medio Oriente.
Come succede in questi casi, il prezzo del petrolio è salito del 5 per cento in poche ore (da 61 a 63,5 dollari il West Texas Intermediate, da 66 a 69 dollari il Brent) e l’oro – il rifugio per eccellenza degli investitori nei momenti di tensione – è schizzato a 1.575 dollari l’oncia, il suo valore massimo da sette anni. Anche Wall Street (la più rappresentativa delle borse) è scesa, sospendendo la corsa che aveva fatto chiudere il 2019 con l’indice Standard & Poor’s su del 28 per cento rispetto a gennaio 2019. La paura non è durata a lungo, tuttavia. Reagendo al brutale colpo americano, sono partiti 22 missili iraniani che però non hanno causato morti, il che ha consentito a Trump di cominciare a parlare di tregua (condizionata) con l’Iran. E così il petrolio è subito tornato giù ai livelli del 10 dicembre, l’oro ha ripiegato sotto i 1.550 dollari e gli indici di borsa hanno ripreso a correre, non solo in America ma anche nel resto del mondo. Negli Stati Uniti, Wall Street tocca nuovi livelli record giorno dopo giorno.
L’entusiasmo dei mercati ha le sue ragioni
Se la borsa americana e – al traino – le altre continuano a salire è per tre ragioni. Una è che certamente il Medio Oriente oggi non fa più paura all’America come in passato: un po’ perché il consumo di greggio per unità di Pil Usa è sceso da 100 (dato del 1973) a meno di 40 (dato del 2019) e un po’ perché lo sviluppo delle tecniche alternative di estrazione di petrolio e gas naturale dagli scisti bituminosi ha ridotto la dipendenza energetica americana dal petrolio importato. Come riportato da Princeton Energy Advisors, l’import netto di petrolio dell’economia americana è oscillato nel 2019 da 2 a 4 milioni di barili al giorno contro i 5-7 milioni del 2018 e la media di 8 barili del 2011-2016.
La seconda ragione dell’entusiasmo dei mercati ha a che vedere con la conversione della Federal Reserve alla dottrina dei tassi bassi – indotta o almeno accompagnata dalla “immoral suasion” del presidente Usa. In passato si riteneva che la politica dovrebbe astenersi dall’entrare a gamba tesa negli ambiti decisionali delle banche centrali. Ma era il mondo prima del sovranismo, ora finito. Con tassi bassi, costa poco indebitarsi e investire; non è strano che i mercati decollino.
Infine – ma è in realtà la ragione più importante – il 15 gennaio sarà firmato alla Casa Bianca l’accordo commerciale relativo alla prima fase dei negoziati con la Cina, quella che interessa trasferimenti di tecnologia, proprietà intellettuale, prodotti alimentari e agricoli, servizi finanziari ed espansione del commercio. L’intesa – “in via di traduzione” secondo fonti Usa – blocca l’introduzione di un nuovo round di dazi su 160 miliardi di dollari di export cinese in America. Dopo la fase uno di firma dell’accordo di metà gennaio seguirà una fase due, fatta dei negoziati veri, dalla durata incerta perché su un insieme più ampio di materie. Per ora, dell’intesa che porrebbe fine alla guerra commerciale Usa-Cina mancano i dettagli, dietro i quali – lo dice un vecchio detto – si nasconde il diavolo. Dettagli che – lo ha subito specificato un portavoce del ministero del Commercio cinese – saranno resi pubblici solo dopo la firma ufficiale. Ma finora a chi investe poco importa: l’importante è che ci sia un accordo e che le multinazionali Usa che producono in Cina per servire il mercato americano (ad esempio la Apple) non debbano spostarsi in Vietnam per evitare i dazi che si aggiungerebbero ai loro costi di produzione, riducendone i margini di profitto.
Intanto da noi si parla di reintrodurre l’articolo 18
Nell’insieme, dunque, malgrado i sussulti di instabilità di inizio anno, i mercati sprizzano ottimismo. E borse che vanno bene spesso anticipano un buon andamento dell’economia. In poche parole, l’economia mondiale sembra confermarsi un ventaglio di opportunità per i nostri esportatori, per le nostre imprese, per i nostri lavoratori, e non un cupo cielo stellato che – come temevano gli antichi Galli in un famoso fumetto degli anni Sessanta – rischia di crollarci sulla testa.
Da noi però la politica non la vive così: Luigi Di Maio e Roberto Speranza, rappresentanti di due dei quattro partiti che formano l’attuale maggioranza di governo, hanno cominciato l’anno parlando di reintrodurre l’articolo 18 “a tutela dei lavoratori”. Ma una politica che guarda indietro e pensa che il peggio debba ancora venire non porta i suoi cittadini a guardare avanti, come dovrebbe.