Fiore e amore a Sanremo L’intuito di Umberto Saba

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«A mai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore/ amore, la più antica difficile del mondo». Pubblicata nel 1946, la poesia Amai di Umberto Saba sembrava una involontaria profezia di quello che di lì a poco sarebbe successo. L’inizio cioè del Festival di Sanremo che, nella canzone vincitrice della prima edizione, Grazie dei fior, racchiudeva fior-cuor-amor. Saba, nei suoi versi, usava anche la parola «dolore», nella canzone c ’è l’aggettivo «dolorose» e la perifrasi «m’han fatto male». A riprova che già dalla nascita Sanremo sarebbe stato la festa delle «trite parole», sempre nel 1951, un’altra canzone in gara, Notte di Sanremo, proponeva il trittico «cuor-fioramor». Amore, del resto, è la parola più usata nei 69 anni del Festival, come si evince dal database del benemerito sito leparoledisanremo.it: insieme ad «amor» supera abbondantemente le 1.200 unità. Una presenza costante, declinata in diverse accezioni nei differenti decenni, ma pur sempre al primo posto perché il canzoniere italiano del Novecento, e a maggior ragione quello di Sanremo, obbedisce all’imperativo «cantare è d’amore», ribadito, sempre sul palco del Festival, da Amedeo Minghi. Trite parole ma non solo: sì perché, soprattutto nei primi anni, la lingua di Sanremo è artificiosa, impostata, lontanissima dal parlato. Se Nilla Pizzi evocava il «supremo anelito», Claudio Villa confessava: «Io non sapevo lusinghe d’amore» e non mancano palpiti e fremiti. Anche con le metafore non si scherza: sempre Villa, per dire quanto lei l’ha fatto piangere, canta «quante monete d’oro questi occhi le han donato». Con Mogliettina (1954) si tocca un vertice del barocco e dell’assurdo: «In fondo al cuore silenziosa germogliava una canzon/ da quando la tua bocca mi baciò,/ e come petali di rosa le sue note sbocceran/ per dirti ciò che il labbro dir non può». Perfino Modugno (ma le parole sono di Dino Verde) cede al ricatto della retorica: «Mille violini suonati dal vento,/ tutti i colori dell’arcobaleno/ vanno a fermare una pioggia d’argento» ( Piove, 1959). Quel Modugno che, nel 1958, con Nel blu dipinto di blu — parole di Franco Migliacci — aveva in un colpo solo svecchiato il repertorio cantabile. Erano, quelli, anni di restaurazione. La nostalgia del buon tempo andato era di moda. Alla vigilia del primo Sanremo, nel 1949 Achille Togliani cantava La signora di trent’anni fa e l’anno dopo, 1950, Bixio Cherubini firmava Evviva la quadriglia, «la dolce quadriglia di un secolo fa». Nel 1952, a Sanremo, Nilla Pizzi canta Il valzer dinnonna Speranza, con evidente omaggio a Guido Gozzano. Ma c’è anche un dopoguerra patriottico, l’alpino che canta il suo Vecchio scarpone, 1953, il Campanaro «delle Sette Croci», 1953, che ricorda gli alpini caduti sui ghiacciai dell’Adamello. Anche il Tamburino del reggimento, 1953, è caduto in guerra. Di «tamburino» e «scarpone» si registra una sola presenza. Ma poi, naturalmente, c’era Nilla Pizzi, Volamcolomba, 1952, che piange lontano dalla sua Trieste e dal suo amore che «inginocchiato a San Giusto/ prega con animo mesto».
Anni in cui parole allusive, abiti scollati, sensualità esibita non sfuggivano alla censura. Come quando la radio Rai non volle trasmettere la scandalosa Tua di Jula De Palma (Sanremo 1959) che sussurrava: «Tua,/ fra le braccia tue,/ per sognare in due,/ per morir così». Anche i parolieri, in parte, si adeguavano al moralismo imperante, in parte però obbedivano a una legge di continuità usando stile, testi e situazioni della produzione cantabile degli anni Trenta, dominata dalle grandi coppie paroliere-compositore come Cesare Andrea Bixio-Bixio Cherubini e Michele Galdieri-Giovanni D’Anzi che avevano creato un modulo perfetto di canzone sentimentale.
Con la fine degli anni Cinquanta tutto comincia a cambiare. I jeans, il juke-box, il rock arrivati dall’America incontrano le attese della nuova generazione e di un’Italia colpita da improvviso benessere che scopre le vacanze, l’abbronzatura e il sapore di mare. Sanremo registra e si adegua, arrivano Paul Anka e Gene Pitney, Dusty Springfield e perfino Louis Armstrong. Caterina Caselli intona il primo inno femminista ( Nessuno mi può giudicare) mentre i gruppi beat invitano a mettere dei fiori nei cannoni. Cose innocenti e pure innocue, se non fosse che poi arrivò il ’68, la protesta scese in strada, mentre contro operai e studenti uniti nella lotta si preparava una brutale, sanguinosa reazione. La musica, per forza, doveva cambiare. Anche le parole. Ma Sanremo avrebbe resistito, nel nome di un sentimento che, da Massimo Ranieri a Toto Cutugno a Laura Pausini, avrebbe continuato a segnare il suo vocabolario. Forse, però, l’entrata in scena di nuove musiche (hip-hop, rap, trap) e della generazione dei talent avrebbe degradato la canzone d’amore e il suo lessico a materiali d’uso sempre più combinati in modo incongruo. Valga per tutte la canzone Per tutte le volte che… con cui Valerio Scanu vince nel 2010: «Come se un giorno freddo in pieno inverno/ nudi non avessimo poi tanto freddo perché/ noi coperti sotto il mare a far l’amore in tutti/ i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi».

P. s. Nella visualizzazione qui sopra la prevalenza assoluta di «Amore» è evidente. Non deve sfuggire, comunque, il fatto che, al secondo posto, in molti anni compare la parola «Mai», corredo inevitabile di un sentimento così grande che mai niente e nessuno potrà cancellare. Ma ecco la sorpresa: nell’ultimo quadriennio, 2016-2019, «Mai» passa al primo posto, «Amore» al secondo. Che vorrà dire? Che è cominciata l’età del nichilismo, dove amore-cuore-fiore non rimano più, e dove le trite parole non significano più niente?

GIULIA DE AMICIS
e RANIERI POLESE, da Corriere della Sera

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