Ci siamo incontrati la prima volta una decina di anni fa, a Reykjavík. Era settembre e il cielo ci aveva sorpreso con un’aurora boreale precoce per la stagione. Oggi ci ritroviamo, ovviamente, sui monitor. Andri Magnason si muove di stanza in stanza in un appartamento tutto bianco, per agganciare la connessione migliore. Dopo essere stato a Berlino, si trova in isolamento a casa della sorella. L’Islanda ha regole più ferree delle nostre su chi rientra dall’estero: cinque giorni di quarantena e due tamponi negativi a prescindere dalla provenienza. Moglie e figli gli telefonano in continuazione, interrompendoci: «Sono preoccupati che mi stia annoiando».
L’Islanda è da sempre un laboratorio perfetto. Remota, compatta, scarsamente popolata eppure ricca e all’avanguardia: qui è stato portato a termine il primo sequenziamento genico di massa, qui si è svolto uno dei primi esperimenti di welfare allargato; e sempre qui il capitalismo ha conosciuto il suo volto più sfrenato e il suo precipizio più vertiginoso, nel 2008. Magnason ha intuito questa vocazione speciale della sua isola a rappresentare un case study. Nel Tempo e l’acqua (Iperborea) intreccia personale e collettivo, riflessione saggistica e memoriale secondo una formula inedita, e riesce nell’impresa di portare la realtà sfuggente del cambiamento climatico dolorosamente vicino a ognuno di noi.
Nell’edizione italiana compare un post scriptum a proposito del Covid. Vorrei partire dalla domanda a cui non dai risposta: «C’è qualcosa in questa pausa globale che possa indicarci la via da seguire» rispetto al cambiamento climatico?
«Nei mesi scorsi abbiamo scoperto di essere in grado di compiere sacrifici che non immaginavamo neanche. Abbiamo avuto modo di interrogare il nostro stile di vita e forse di trovare un ritmo più adeguato. In molti si sono accorti che le stesse attività di sempre potevano essere fatte più lentamente e meglio. Ora dovremmo attaccarci a questa consapevolezza e insistere fino a trasformarla in una nuova cultura. Se fai una dieta dimagrante serve almeno un anno perché il corpo registri il nuovo peso e non rimbalzi all’indietro».
Eppure in questa nuova normalità io mi accorgo di essere diventato meno parsimonioso. Vivi l’attimo, tanto chissà che altro può succedere. E se avvenisse lo stesso su scala planetaria?
«In realtà i sacrifici che ci vengono richiesti per combattere il riscaldamento globale sono molto più ridotti di quelli che abbiamo appena compiuto. Potremo comunque fare visita alle nostre nonne, potremo andare a scuola, al cinema e alle feste, e continuare a esistere come comunità. Se per affrontare il contagio abbiamo rinunciato al 10% del prodotto interno lordo, per decarbonizzare l’economia ne basterebbe il 2%. E non si tratterebbe neppure di buttare via quel denaro, solo di investirlo diversamente. È uno sforzo possibile. Ma è uno sforzo che necessita di misure adeguate, di governi che diano ascolto alla scienza e soprattutto di pensiero a lungo termine. Dobbiamo immaginare che cosa accadrà nel 2050 così come abbiamo temuto di poterci ammalare di Covid l’indomani».
Il pensiero a lungo termine è da sempre la parte più difficile nella lentissima opera di persuasione sul climate change.
«C’è un libro del filosofo Roman Krznaric intitolato The Good Ancestor, c he parl a del cathedral thinking, il pensiero-cattedrale, quello che attivi quando inauguri la costruzione di una cattedrale che, lo sai, verrà completata solo trecento anni più avanti. È un tipo di ragionamento a lungo termine che nelle città italiane s’incontra dappertutto: persone che hanno iniziato qualcosa che non si aspettavano di finire, e che forse neppure i loro nipoti avrebbero finito. Eppure lo facevano, progettavano. Io ho dei figli e questo significa che sto progettando, che mi sto connettendo con un futuro che va almeno cento anni più in là della loro nascita».
Senti l’obbligo di essere ottimista quando parli di cambiamento climatico?
«Ho lottato molto mentre scrivevo. Mi chiedevo spesso se la mia speranza fosse reale o no. Ma se non ne avevo affatto, perché scrivere? Il libro in sé è un atto di speranza. Molti scienziati concordano sul fatto che certi esiti del riscaldamento globale non possano ormai essere evitati, ma abbiamo ancora la facoltà di incidere sull’entità di quegli esiti. Noi abbiamo vissuto in un’epoca molto cinica, in cui praticamente ogni nostra azione era volta al peggioramento complessivo. Se producevi una Ferrari cinquant’anni fa potevi dirti soddisfatto, ma sapendo ciò che sappiamo oggi non puoi più esserlo, perché sei cosciente di sprecare troppe risorse, troppo carburante. Vivere in un’epoca di cinismo alla fine ti fa a pezzi, culturalmente e umanamente».
«Il tempo e l’acqua» contiene al suo interno una saga famigliare islandese: la nonna Hulda che ha fatto il suo viaggio di nozze sul ghiacciaio Vatnajökull, il nonno medico che ha curato Andy Warhol e Robert Oppenheimer, e lo zio John, che ha dedicato tutta la propria esistenza a salvare.
PAOLO GIORDANO, Corriere della Sera