Venivano colpite alla testa con un colpo di arma da fuoco e poi lanciate nel vuoto. La sorte delle 86 vittime musulmane del massacro di Prijedor è la stessa delle oltre 5000 persone uccise in città dall’esercito serbo-bosniaco durante la guerra dei Balcani. Ogni anno, a luglio, si tengono i funerali di coloro che sono stati identificati.
“Oggi seppelliamo il fratello di mia moglie, io e quest’altro giovane invece siamo stati rinchiusi nello stesso campo – ricorda un sopravvissuto, Sadumovic Salko – Non gli è rimasto nessun parente in vita, così abbiamo deciso di portare la sua bara”.
“Questa è un’esperienza difficile che io e mia moglie stiamo condividendo – dice Armin Suljanovic – Aveva 6 anni quando ha perso suo padre, e l’altro giorno voleva tenergli la mano. Nell’obitorio di Sehovici stringeva le ossa del padre, teneva le ossa nella sua mano”.
Nei tre mesi dell’estate 1992, le forze paramilitari serbe uccisero più di tremila non serbi e ne cacciarono oltre 50 mila dall’area di Prijedor.
L’amministrazione serba arrivò a emettere un ordine alla popolazione non serba di indossare fasce bianche sulle braccia quando lasciavano le loro case, un ordine seguito da esecuzioni di massa e persecuzione. Fino a 50.000 donne hanno subito violenze e stupri.