Il clima che verrà da Copenhagen

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La conferenza di Copenhagen di dicembre sarà fondamentale per il futuro della lotta ai cambiamenti climatici. Detto con una battuta, il risultato sarà “troppo poco, troppo costoso”.
Il Protocollo di Kyoto è stato un passo importante sotto il profilo simbolico, ma non è riuscito a promuovere uno sforzo maggiore nella riduzione dei gas a effetto serra (Ghg). E senza un cambiamento di mentalità, il protocollo di Copenhagen ci regalerà ancora undici anni di questo gioco al rinvio: i paesi continueranno nei loro comportamenti free-riding e si rafforzerà la convinzione che rimanendo ancorati al carbonio si sarà poi in una posizione di forza per chiedere compensazioni in cambio dell’adesione a un accordo nel 2020.

Costosi e insufficienti

Certamente, qualche passo avanti si farà. I mercati dei crediti di carbonio esistono o saranno creati in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone e anche i paesi emergenti hanno intrapreso alcune azioni. La combinazione di danni collaterali (l’emissione di SO2, un inquinante locale, unito a quella di CO2 degli impianti a carbone), di effetti diretti del proprio inquinamento da CO2 in grandi paesi come la Cina, di desiderio di placare l’opinione pubblica interna e di sottrarsi alle pressioni della comunità internazionale porterà a qualche forma di controllo del carbonio. Ma non sarà sufficiente, come rivela la stessa riluttanza dei paesi a sottoscrivere accordi vincolanti.
Nello stesso tempo, l’accordo che uscirà da Copenhagen sarà anche troppo costoso perché il riscaldamento globale continuerà a essere affrontato utilizzando le stesse soluzioni di ripiego, del tutto inefficaci – come negoziati settoriali, standard e altri approcci strategici, progetti Cdm – alle quali ci hanno abituato sia le lobby industriali sia Kyoto.
Non è facile raggiungere un accordo internazionale soddisfacente. Ma resta comunque stupefacente quanti pochi progressi siano stati fatti dopo Kyoto. I negoziati non hanno affrontato direttamente il problema delle compensazioni. La proposta del G77 che chiede ai paesi sviluppati di trasferire fino all’1 per cento del loro Pil (e di impegnarsi unilateralmente a più rigidi obiettivi di abbattimento) ha il merito di aver messo la questione sul tavolo del negoziato, ma non tutela gli interessi dei paesi emergenti. I paesi ricchi non hanno rispettato le loro promesse sugli aiuti allo sviluppo e sull’Aids. E ogni ipotesi di aumento degli aiuti si deve misurare con la scarsa tolleranza dell’opinione pubblica verso i trasferimenti finanziari a paesi stranieri e con le attuali ristrettezze finanziarie.
Quasi all’unanimità gli economisti raccomandano che il prezzo del carbonio sia lo stesso per tutti i paesi, tutti i settori e tutti gli attori: è necessario affrontare i problemi distributivi attraverso l’allocazione dei permessi, non rendendo eccessivamente costoso l’abbattimento. Semplice? Forse, ma perché rendere semplici le cose, quando si può renderle complicate?

Obiettivi di Copenhagen

n che direzione dovrebbero muoversi dunque i negoziati di Copenhagen? Dovrebbero puntare a un’intesa su alcune azioni iniziali, su alcuni principi di massima e su una tabella di marcia verso un accordo nel 2015-2016:
–        un obiettivo globale sulle emissioni per il 2050 in conformità con quanto indicato in sede Ippc
–        l’installazione rapida di un sistema satellitare capace di misurare le emissioni a livello di singolo paese
–        un sistema di tipo cap-and-trade, mondiale e di lungo periodo, che porti a un prezzo unico del carbonio e sia perciò coerente con la minimizzazione dei costi di abbattimento. Il sistema dovrebbe rendere sostenibile l’accordo e denunciare chi ha remore all’utilizzo di dispositivi “verdi” o a impegnarsi in attività di ricerca e sviluppo “verdi”
–        regole di partecipazione che diano incentivi a sottoscrivere e rispettare l’accordo (compresa l’eventuale fine dei Cdm): per esempio, considerare i debiti ambientali che ne derivano come un debito sovrano (monitorato dal Fmi), sottoscrivere un patto globale commercio-ambiente (che coinvolga il Wto), prevedere un parziale ritiro dei permessi accordati ai paesi, denunciando quelli riottosi a rispettare le regole e così via
–        un principio di sussidiarietà, con i permessi allocati all’interno dei singoli paesi dai paesi stessi, sulla base fatto che a) per partecipare all’accordo, i governi devono riuscire a creare consenso nel proprio paese e che b) alla comunità internazionale interessano solo le emissioni Ghg totali del paese e dunque le politiche interne possono essere delegate ai singoli paesi che saranno responsabili delle loro emissioni.

I negoziati per il 2015 potrebbero concentrarsi allora su un’unica questione: l’allocazione dei permessi gratuiti ai paesi per far sì che tutti vi partecipino. Ciò dovrebbe implicare, per esempio, una dotazione generosa ai paesi emergenti. Per quanto sia complesso, il negoziato sarebbe comunque più semplice di quello su più fronti nel quale siamo impegnati oggi, e anche il costo globale dell’abbattimento si abbasserebbe significativamente. Nell’attuale situazione, riaffermare e impegnarci per una buona governance rappresenterebbe un significativo passo avanti.

Jean Tirole, da “LaVoce.it”

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