Il tesoro di Misurata torna a risplendere

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Il più grande tesoro monetale romano, ritrovato nel 1981 a Misurata, in Libia, è fruibile in tutto il suo splendore grazie al lavoro dell’Istituto per le tecnologie applicate ai beni culturali (Itabc) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha coordinato il restauro, lo studio storico, l’analisi composizionale e la digitalizzazione di questo patrimonio. Il tesoro, composto da 108 mila monete, fu rinvenuto casualmente durante l’esecuzione di lavori agricoli, dentro grossi vasi (olle, brocche, anfore), sotterrati in prossimità di due edifici, facenti parte forse di un luogo di cambio dei cavalli del cursus publicus – il servizio per il trasporto di merci o plichi appartenenti allo Stato – e di persone che viaggiavano per conto dell’amministrazione centrale.

Databili tra il 294 e il 333 d.C., queste monete sono nummi (folles), ossia prodotti con una lega rame-stagno-piombo comprendente una piccola quantità di argento, caratterizzati da un arricchimento superficiale sottilissimo con il medesimo metallo. Anche se non è da escludere che il tesoro dovesse essere costituito da un numero maggiore di esemplari, si tratta più grande ritrovamento non solo di epoca romana, ma, probabilmente, di tutto il mondo antico. “Oltre che per le dimensioni”, spiega Salvatore Garraffo direttore dell’Itabc-Cnr, “il rinvenimento si distingue perchè che getta nuova luce sia sulla storia dell’economia e della circolazione monetaria in Tripolitania nella prima metà del IV secolo d.C., sia sulla metallurgia e la tecnologia della produzione monetale di quel periodo”.

Ma a chi apparteneva questo patrimonio? “Si possono avanzare due ipotesi”, continua Garraffo, “il tesoro costituirebbe il contenuto di una cassa destinata a erogare pagamenti o al ritiro di monete messe ‘fuori corso’ anche al fine di recuperarne, mediante rifusione, il contenuto in argento”.

Le monete, a partire dal 2007, sono state oggetto di un’accurata serie di analisi fisiche non distruttive, volte a definire la percentuale del contenuto in argento nella lega e a precisare, in associazione con altri metodi di indagine, la tecnologia di fabbricazione, elementi che aiutano a ricostruire l’‘inflazione’ e le periodiche crisi economiche e monetarie che travagliarono in quei decenni l’impero romano. Le misure si basano sull’utilizzo di sorgenti radioattive messe a disposizione dai laboratori del Cnr e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare.
“Il laboratorio per le analisi non distruttive Landis dell’Infn-Lns”, spiega il responsabile Giuseppe Pappalardo, “ha sviluppato l’analisi delle superfici con il sistema portatile Pixe-alfa (brevetto Infn/Cea), la caratterizzazione del substrato mediante il sistema a controllo di stabilità Bsc-Xrf e l’analisi quantitativa dell’interno mediante l’innovativa tecnica Dpaa (Deep proton activation analysis). Allo stato attuale si tratta del più completo protocollo di analisi non distruttiva di monete”.

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