“La perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non quello culturale, incalcolabile. Se adeguatamente conosciuto, conservato e tutelato, tale bene è una fonte inesauribile di reddito, in grado di muovere un indotto notevole in numerosi settori”, spiega Marcello Guaitoli, ricercatore dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibam-Cnr) e docente presso l’università del Salento. “I beni archeologici presenti sul nostro territorio mediamente sono conosciuti solo per il 10%, anche per questo molti di essi rischiano una sistematica distruzione a causa di lavori agricoli, di urbanizzazione, scavi clandestini e fenomeni naturali”.
I dati del Sistema informativo territoriale (Sit) raccolti attraverso le ricognizioni in sito condotte in Lazio e Puglia dal Cnr in sinergia con le università di Roma ‘La Sapienza’, Siena, Napoli e della Tuscia e con le strutture centrali e periferiche del ministero per i Beni e le attività culturali, sono al centro del convegno ‘I beni che perdiamo’ organizzato presso l’aula convegni della sede centrale dell’Ente (piazzale Aldo Moro, 7), oggi e domani dalle ore 9.00. Un confronto tra varie istituzioni sul rischio e sull’azione di salvaguardia di monumenti, centri storici, paesaggi e siti, anche alla luce degli ultimi eventi sismici.
Le ricchezze archeologiche non censite e rilevate grazie all’indagine scientifica condotta dal Sit mediante metodologie e tecnologie innovative nei territori di Lazio e Puglia, vanno da un minimo del 67% (Taranto) a un massimo del 94% (Neviano in provincia di Lecce), a dimostrazione che il nostro suolo è uno scrigno di reperti di valore inestimabile quasi totalmente sconosciuti.
Il Sit lancia un vero Sos. “Nel territorio di Taranto, su un totale di 1.190 siti, ben 859 sono noti grazie alla ricognizione a tappeto, mentre le aree sottoposte a vincolo sono appena 8, quelle archiviate della Soprintendenza 63 e 331 quelle note dalla bibliografia, 44 delle quali sono scomparse”, prosegue Guaitoli. “Nulla in confronto a Ruvo, dove il 99% dei siti segnalati non esiste più. Nel Salento le evidenze scoperte grazie alla ricerca sono il 77%, pari a 3.166 sul totale delle 3.931 conosciute, a Capo Santa Maria di Leuca, 1.001 su 1.092. Il caso limite è Neviano, dove solo il 6% delle aree archeologiche è presente in bibliografia”.
Altrettanto critica la situazione nel Lazio.
“Nel territorio di Viterbo l’87% del conosciuto, 2.158 presenze, è frutto della mappatura. Nell’area a nord-ovest di Roma sono stati rintracciati 3.183 siti, il 55% dei quali prima sconosciuti”, prosegue il ricercatore Ibam-Cnr. “E anche qui emerge il dato sconfortante dei molti luoghi di interesse citati in fonti scritte oggi scomparsi: esemplare la via Prenestina, dove solo 245 su 856 presenze archeologiche rilevate nel 1970 sono scampate alle opere di urbanizzazione”.
In realtà la minaccia maggiore per il patrimonio culturale è costituita dai lavori agricoli, che incide nei danni da un minimo del 40% (Neviano) fino all’87% di Commenda (Vt); infrastrutture industriali e urbane, scavi clandestini e fenomeni naturali le altre cause. “Nel Salento sono state danneggiate 2.916 evidenze su 3.931; a nord ovest della Capitale 1.478 su 3.183; a Viterbo, 1.342 su 2.256 solo quelle compromesse dall’agricoltura”, conclude Guaitoli. “Il Sit mostra situazioni critiche diversificate: beni conosciuti e vincolati ma privi di tutela diretta, altri esistenti ma ignoti e di conseguenza anch’essi non protetti. Un contributo sostanziale alla loro salvaguardia si deve al monitoraggio aereo e terrestre condotto da più di dieci anni dal Comando carabinieri tutela patrimonio culturale in collaborazione con il Cnr. Queste indagini hanno contribuito in modo sensibile alla repressione e alla riduzione degli interventi dolosi e permesso di scoprire un numero elevatissimo di evidenze sconosciute, in alcuni casi di rilevanza assoluta”.