Intervista a Don Paweł Ptasznik

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IMG_0017Nato nel 1962. Sacerdote cattolico, prelato, dottore in teologia. Laureato presso: Il Seminario Maggiore e la Pontificia Accademia Teologica a Cracovia, la Pontificia Universita’ Gregoriana a Roma. Dal 1996 legato alla Sezione Polacca del Segretariato dello Stato della Citta’ del Vaticano, dal 2001 facente funzione di direttore. E’ anche responsabile dell’assistenza spirituale degli immigrati polacchi presso la diocesi di Roma. Rettore della Chiesa e Ospizio di S. Stanislao a Roma. Autore dei libri: “Lasciate che i bambini vengano a me” (1991); “Lo Spirito Santo nei sacramenti dell’iniziazione cristiana secondo i libri liturgici della riforma dopo il Concilio Vaticano II (1995); “Alla luce del Vangelo” (1999-2000), piu’ diversi articoli pubblicati in riviste scientifiche e popolari. Redattore delle seguenti opere del Papa Giovanni Paolo II: “Dono e Mistero” (1996); “Alzatevi, andiamo!” (1994); “Trittico romano” (2003); “Memoria e identita’” (2005). Attualmente redattore capo delle “Opere raccolte di Giovanni Paolo II”. Consulente dei film: “Karol. Un uomo diventato Papa.” (2005); “Karol. Un Papa rimasto uomo” (2006); “Giovanni Paolo II” (2006). Mons Pawel, è stato collaboratore per dieci anni di Papa Giovanni Paolo II e Responsabile della Sezione polacca della Segreteria di Stato Vaticana: abbiamo chiesto a Monsignore, i ricordi che porta nel cuore del Beato in prossimità della Sua Santificazione.

Mons. Pawel, Lei è stato collaboratore di Giovanni Paolo II per 10 anni. Qual è stata la Sua impressione sia da consacrato che da uomo nell’aver vissuto con un Santo?

Sì. Devo dire che sono stati per me dieci anni meravigliosi, anni di un grazia particolare, per la quale ringrazio il Signore ogni giorno. Li ho vissuti con la chiara consapevolezza d’aver avuto l’onore di partecipare al ministero del grande Papa, uomo di profonda fede e di illimitato impegno per la vita della Chiesa e per la diffusione del Vangelo di Cristo nel mondo. Non ho pensato però alla santità, o almeno non ho avuto il coraggio di chiamare questa realtà per nome. Forse sarebbe per me troppo impegnativo? Sì, a volte mi viene un rimorso: il rimorso che, vivendo accanto a un santo, non abbia approfittato bene di questa opportunità per imparare la santità. Ma mi consola il pensiero che questa scuola non è finita… Comunque, ammiravo soprattutto il suo continuo, profondo contatto con Dio, il suo spirito di preghiera, la sua capacità di vedere, analizzare e valutare le vicende e di risolvere i problemi alla luce del Vangelo. E poi, la sua semplicità, l’apertura, l’attenzione che aveva per ogni uomo che incontrava – come se fosse l’unico al mondo. E alla fine, la sua pazienza e la totale dedizione al Signore nella sofferenza…

Ultimamente Le è stato dato l’ incarico di tradurre il testamento di Giovanni Paolo II. Cos’ha significato per Lei, questo compito?

Alcuni giorni prima della dipartita del Santo Padre, mi ha chiamato Mons. Dziwisz, mi ha dato una cartella con delle pagine scritte a mano dicendo: “Bisogna cominciare a tradurlo”. Era il testamento… In quel momento, di colpo, mi sono reso conto che inevitabilmente si avvicinava il momento in cui questo testamento sarebbe stato letto. E’ stato per me il momento più doloroso… forse anche più doloroso dell’ora della morte stessa: mentre tutta la Chiesa pregava per la sua guarigione, io sapevo che la fine era imminente… Cominciai la traduzione. A un certo momento arrivai alle parole che mi hanno profondamente  confortato. Nell’anno 1980, scriveva così: “Accettando già ora questa morte, spero che il Cristo mi dia la grazia per l’ultimo passaggio, cioè la [mia] Pasqua. Spero anche che la renda utile per questa più importante causa alla quale cerco di servire: la salvezza degli uomini, la salvaguardia della famiglia umana, e in essa di tutte le nazioni e dei popoli (tra essi il cuore si rivolge in modo particolare alla mia Patria terrena), utile per le persone che in modo particolare mi ha affidato, per la questione della Chiesa, per la gloria dello stesso Dio”.Avevo davanti agli occhi quell’immensa distesa di gente che in Piazza San Pietro pregava con tutto l’animo, e pensavo: “Questa morte è davvero utile per la causa che Lui ha servito per tutta la vita… Il Signore ha accolto la sua preghiera”.

Lei ha anche avuto l’incarico di curare i discorsi di Papa Wojtyla, aiutandolo anche nella riscrittura finale dei testi “Memoria e identità” e “Trittico romano”. Com’era con Lei, Giovanni Paolo II?

Fin dal primo giorno del mio servizio il Santo Padre mi ha fatto sentire “in famiglia”. Certo, all’inizio avevo una reverenza confinante con la paura. Ma lui non creava distanze, non dimostrava nessuna “maestà”, ispirava serenità, sì che dopo qualche istante potei tranquillamente fare il mio lavoro. All’inizio sembrava che il mio compito fosse quello di “scriba veloce”. Quando il Santo Padre si è rotto la mano, non poteva scrivere e nello stesso tempo voleva continuare a lavorare, a preparare i suoi discorsi, qualcuno gli ha consigliato di servirsi di uno scrittore e di dettare i testi. Poi questo modo di lavorare gli è piaciuto e ha continuato, prima con Mons. (oggi cardinale) Ryłko e poi con me. Presto mi sono reso conto che non finiva qui – non si trattava solo del lavoro tecnico di un dattilografo. Quando ho cominciato il mio lavoro nella Segreteria di Stato stava per essere pubblicato il libro “Dono e mistero”. Ho ricevuto il testo in fase di elaborazione finale e mi è stato chiesto di completare il lavoro, di curare l’edizione polacca e di collaborare con i traduttori. E’ stato il primo lavoro serio, con certa responsabilità. E poi, anche nel lavoro quotidiano, il Papa attendeva da me una collaborazione attiva e creativa. Chiedeva spesso il mio parere su temi concreti, o sui testi che aveva appena dettato. All’inizio avevo timore di esprimere i miei giudizi davanti al Papa, grande filosofo e teologo, conoscitore della Sacra Scrittura e della letteratura mondiale. Ma, man mano,acquistai più coraggio e spesso ebbi la possibilità di scambiare con Lui idee, osservazioni, o anche di entrare nel merito delle questioni. E poi c’erano i documenti più importanti – encicliche, esortazioni, lettere apostoliche – e i libri, fino a “Memoria e identità” e al “Trittico Romano”.

Mons. Pawel, Lei ha curato personalmente la sezione del casting per il film dedicato a Karol Wojtyla: Karol un uomo diventato Papa (2005) Karol un Papa rimasto uomo (2006) e Giovanni Paolo II (2006). Com’è stata questa esperienza?

E’ stata bella e interessante – un campo di creatività per me totalmente nuovo. Mi pare che mi abbia introdotto in questo mondo Gian Franco Svidercoschi, che conoscevo dai tempi della redazione del “Dono e mistero”. I produttori stavano cercando un consulente, uno che conoscesse Giovanni Paolo II da vicino e potesse suggerire alcuni particolari o valutare se le invenzioni artistiche corrispondessero al carattere della persona e dell’insegnamento del Papa. L’altro consulente, forse con più esperienza, era padre Tucci, gesuita, organizzatore dei viaggi pontifici, che poi è stato creato cardinale. Devo dire che la collaborazione con il regista Giacomo Battiato e il protagonista Piotr Adamczyk è stata stupenda. Forse perché tutti volevano una cosa sola: far vedere Giovanni Paolo II con tutta la ricchezza della sua storia, della sua personalità e della sua opera. Certo, una fiction è sempre una sintesi artificiale, ma a parere di molti il film sembrerebbe riuscito bene. E in seguito ci sono stati altri impegni, ad esempio il documentario “Testimonianza”, realizzato sulla base del libro scritto dal Card. Dziwisz con la collaborazione di Svidercoschi.

Ha ricevuto in dono un dossier su Karol Wojtyla,  copia del testamento di donazione del monumento e un album fotografico contenente più di 300 foto ora custodito in Vaticano. Ma qual è il dono che in assoluto le ha lasciato Giovanni Paolo II?

Di cose materiali, avevo la tonaca bianca e lo zucchetto, che Lui stesso mi aveva donato; ora, l’una e l’altro sono esposti nella chiesa di San Stanislao a Roma, della quale sono rettore. Ovviamente possiedo anche i suoi libri con l’autografo. Ma questi sono solo un ricordo della sua persona e dei bei tempi che ho passato accanto a Lui. Il dono più grande che tengo nel cuore è la sua paterna amicizia, il suo esempio di vita unita a Cristo e sicuramente la sua preghiera. Sa, Egli aveva nella sua cappella alcuni fogli dell’edizione polacca de “L’Osservatore Romano”, con i nomi di tutti i capi dicastero e degli ufficiali polacchi in servizio alla Santa Sede. Vi era anche il mio nome. So che il Papa ogni giorno pregava per questi suoi collaboratori. Pregava dunque anche per me. E sono certo che questa sua preghiera continua…

Se dovessimo ricordare la figura di Giovanni Paolo II in una sola parola, quale sarebbe più attinente?

Forse in tre: Un grande uomo santo.

  Rita Sberna

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