Di Giacomo, le carceri sono scuola di radicalizzazione jihadista

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L’allarme lanciato dal Copasir sul rischio crescente di radicalizzazione jihadista in Italia
coinvolge direttamente le carceri dove sono tra i 15 e i 18 mila i detenuti islamici, di cui una
sessantina con l’accusa di terrorismo internazionale nelle sezioni di alta sicurezza riservate.
Già prima del Copasir come Sindacato Polizia Penitenziaria abbiamo posto l’esigenza di
alzare il livello di guardia a seguito delle continue storie di radicalizzazione in carcere e di
episodi di cittadini di fede islamica che, durante il periodo di detenzione, hanno
manifestato comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli
attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l’Occidente e contro il
personale penitenziario “infedele””. Così il segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo
che aggiunge: “adesso che la relazione del Copasir conferma il carcere “terreno fertile” per i
fenomeni di radicalizzazione si devono prevedere norme specifiche nel nuovo
provvedimento legislativo proposto. Non basta più procedere come è accaduto sinora con
l’ormai superata suddivisione in tre categorie -” segnalati”,” attenzionati” e” monitorati” –
perché se il “proselitismo” è il fenomeno più diffuso per la criminalità italiana e straniera in
questo caso rappresenta la “scuola per nuovi terroristi”. E se è assolutamente chiaro chi
sono i terroristi, in quanto sono in carcere perché imputati o arrestati per una specifica
fattispecie di reato, non è così chiara la costruzione delle altre tre categorie entro cui sono
collocati i detenuti ritenuti ‘radicalizzati’ o comunque a rischio”.
Per il segretario S.PP.: “anche assicurare ai detenuti islamici l’assistenza spirituale può
contribuire a prevenire la formazione di comportamenti terroristici: ad oggi su 1500 ministri
di culto autorizzati ad entrare nei nostri penitenziari solo una quarantina sono imam e
qualche decina le sale-moschee riservate. Altra nostra richiesta è quella di rafforzare il
personale di polizia penitenziaria specie negli istituti dove il numero di detenuti
extracomunitari ed islamici è più alto e dove si continuano a verificare episodi di
aggressione al personale e sviluppare programmi mirati alla formazione di personale che
sappia individuare i processi di radicalizzazione “dietro le sbarre” per aiutarli a distinguere la
pratica religiosa, o il riferimento a una particolare concezione dell’islam, dai possibili
indicatori di radicalizzazione. Non si sottovaluti ancora che in carcere accade quello che già
accade con il reclutamento e l’“affiliazione” a clan mafiosi di detenuti con l’effetto che una
volta usciti ci ritroviamo nelle nostre città con potenziali terroristi o appartenenti a violente
gang di criminali specie nigeriane”.

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