A tre anni dalle rivolte in 57 carceri la conclusione è che hanno vinto loro

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“A tre anni esatti dalle tragiche rivolte nelle carceri italiane – la prima risale al 7 marzo 2020
nel carcere di Salerno, ma il giorno successivo a Modena si scatena l’inferno segnando
l’effetto domino in altre carceri – la conclusione è che l’hanno vinta loro, perché il comando
degli istituti penitenziari è ancora nelle mani di boss e criminali”. È il secco commento del
segretario generale del S.PP. – Sindacato Polizia Penitenziaria – Aldo Di Giacomo nel terzo
anniversario delle 57 rivolte in altrettanti istituti coinvolti nei disordini, con 13 morti, per un
totale di 7.517 detenuti partecipanti e 9 milioni di euro di danni (per fermarsi ai danni più
evidenti). A Foggia la rivolta è sfociata nell’evasione di 72 detenuti, alcuni poi rientrati in
carcere volontariamente, altri catturati dalle forze dell’ordine. Quanto alle morti – riferisce Di
Giacomo – le rivolte, come ha accertato la commissione Lari, hanno facilitato l’accesso dei
detenuti ai medicinali, prima causa dei decessi.
“Intanto è il caso di ricordare – aggiunge – che in questi tre anni c’è stato almeno un
centinaio di mini rivolte quasi tutte con le stesse modalità, vale a dire l’incendio di materassi
e suppellettili in cella per scatenare disordini. Solo per l’intervento degli agenti, la loro
professionalità è stato possibile evitare che si ripetessero i fatti della stagione delle rivolte
2020. Su un elemento credo non ci possano essere più dubbi perché a sostenerlo sono le
inchieste di magistrati antimafia: una regia “occulta” ha guidato le rivolte sfruttando la
paura della pandemia per puntare su amnistia e indulto attraverso l’utilizzo dei detenuti più
deboli e ricattabili, la cosiddetta “manovalanza” dei boss. Nulla è stato casuale e per il
tragico svolgimento dei fatti non poteva essere diversamente. Il nostro giudizio sulle
responsabilità dei Governi che si sono succeduti negli ultimi tre anni e della politica deriva
principalmente dalla profonda e grave sottovalutazione di quanto è accaduto. L’allora
ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non ha commentato la tragedia per giorni, poi si è
limitato a palare di “atti criminali” dei detenuti e liquidando le morti come “perlopiù causate
da abusi di sostanze” sino a istituire un comitato di saggi e commissioni di indagine che
non hanno prodotto risultati soddisfacenti. Dopo tre anni, proprio come se nulla fosse
accaduto e come se la “lezione” delle rivolte non avesse insegnato nulla, la situazione delle
carceri è in questi pochi ma significativi numeri che si ripetono ogni anno dal 2020: circa
400 aggressioni ad agenti, 1800 telefonini rinvenuti, qualche centinaia di kg di sostanze
stupefacenti sequestrata, 84 suicidi di detenuti lo scorso anno (10 già nei primi due mesi
dell’anno di cui 2 a Roma e Pescara nelle ultime 24 ore).
Sui telefonini – strumento essenziale per l’effetto domino rivolte – è innegabile che le più
avanzate tecnologie sia per droni che sfuggono a controlli (ammesso che nelle carceri ci
siano strumentazioni idonee ad intercettare voli o sistemi di allarmi anti-intrusione) che per i
mini-telefonini di dimensioni sempre più piccoli facilitino l’introduzione dei cellulari. Ma
continuiamo a chiederci come si attrezza l’Amministrazione Penitenziaria per bloccare il
mercato dei telefonini se non grazie al lavoro del personale penitenziario che con grande
professionalità riesce a trovarli e sequestrarli. Quanto alla crescente richiesta di
comunicazioni con l’esterno è il caso di evidenziare – dice Di Giacomo – che i boss non si
limitano certo a telefonare alle mogli. Tanti magistrati anti mafia hanno accertato che i
comandi per operazioni sui territori partono proprio dalle celle delle carceri e persino
richieste estorsive. Dalle tante indagini, condotte praticamente in ogni angolo d’Italia, è
venuto alla luce che boss mafiosi impartivano disposizioni ai loro sottoposti in libertà, ladri
e trafficanti che usavano i dispositivi elettronici, introdotti illecitamente dietro le sbarre, per
dare direttive ai loro complici a piede libero per proseguire le attività illecite. Ad agevolare
l’uso disinvolto dei cellulari è la parziale applicazione del decreto legge numero 130, entrato
in vigore dal 21 ottobre 2020, secondo il quale introdurre e detenere telefonini in carcere è
un reato, che viene punito con pene che vanno da uno a quattro anni di reclusione. I
detenuti in possesso di cellulari sanno che difficilmente incappano in una nuova condanna.
In definitiva – conclude Di Giacomo – lo Stato ha perso l’occasione della “stagione delle
rivolte” per imporre il suo controllo delle carceri e non lasciarlo nelle mani dei boss e
criminali”

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