Dieci libri da presentare. Dieci autori incontrano il pubblico

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Sala gremita, pubblico attentissimo e partecipativo. Sabato scorso, nella sede della Fondazione, si è consumata in un’atmosfera molto coinvolgente, la presentazione del primo romanzo della Decina 2024 del Premio Sila ’49. In primo piano, il romanzo “Una minima infelicità”. A far da prologo, l’introduzione dalla direttrice del Premio, Gemma Cestari. Di seguito, la parola è passata alla scrittrice cosentina Elena Giorgiana Mirabelli che ha dialogato con Carmen Verde, l’autrice del libro, già candidato al Premio Strega 2023.
“Le atmosfere del libro di Carmen – ha sottolineato Gemma Cestari nel suo intervento introduttivo – mi hanno riportato a certa narrativa di Giorgio Bassani, Piero Chiara, Goffredo Parise, perché c’è un altro protagonista, oltre a questa famiglia infelicissima. Un protagonista pesantissimo: il giudizio della comunità di provincia. Che è così pesante, rispetto alle dinamiche familiari apparentemente intime, che a un certo punto entra fisicamente nel romanzo attraverso la cattivissima domestica che governa le loro vite facendo del male a madre e a figli. Con loro a lasciarsi far del male. E qui arrivano ancora altre suggestioni che mi riportano a quello che viene dal mondo delle favole. Ché è proprio il nucleo incandescente del romanzo: Annetta è una donna di piccolissima statura che non crescerà mai, cioè continuerà a rimanere piccola. La prima cosa a cui penso è Pollicino, ma ci sono tante altre cose delle favole, appunto la governante cattivissima, la nonna pazza, il castello…”.
Elena Giorgiana Mirabelli ha sottolineato come il libro sia stratificato ovvero “ci siano tantissimi livelli di lettura e quando a volte questi livelli sono più o meno evidenti, alcuni sono profondissimi e li comprendi soltanto dopo esserci ritornato a una seconda lettura. Ti risuonano diversamente. Queste parole – ha continuato – sono inquadratura, dettagli, piccolezza, linea femminile e quindi risuona la linea femminile, l’infelicità che è evidente fin dal titolo, ma c’è anche corpo, perché è un libro dove parlano i corpi, dove sono infelici i corpi, in diverse sfaccettature e in tante diverse declinazioni”.
Carmen Verde ha poi raccontato come ha lavorato per scrivere il suo romanzo. “Ero alle prese con l’infelicità – ha detto – che ho messo addirittura nel titolo, e sapevo di muovermi in un terreno poco sicuro, ma ritengo che sia una questione profondamente letteraria. Intanto perché non è uguale per tutti, e la parola è uguale, e questo potrebbe indurci nell’errore di considerare che l’emozione sottostante sia uguale, invece no, perché ognuno di noi è diversissimo nell’infelicità. L’infelicità è singolare, quello che ci rende singolarissimi. E l’altra cosa è che la parola infelicità non comunica nessuna infelicità, la parola sofferenza, nessuna sofferenza. E allora, in un libro fatto di parole, come tradurre in un libro un sentimento così complesso? L’idea che mi sono fatta è che facciamo esperienza di alcune cose concrete, di alcune situazioni, cioè non è che facciamo esperienza del sentimento dell’infelicità nel suo complesso, ma arrivano delle situazioni in cui questo accade…”.
Tre domande a Carmen Verde
Ci siamo intrattenuti con l’autrice e approfondito la conoscenza del suo romanzo d’esordio.
Tra le tante definizioni benevole della critica, “Una minima infelicità” è stato definito un romanzo vertiginoso…
Devo questa definizione fulminante, allusiva, a Roberto Cotroneo, editor di Neri Pozza, al momento della pubblicazione. Ne ho accettato il dono, non chiedendogliene mai il significato, ma segretamente sperando che il mio romanzo potesse esserne all’altezza.
Che cos’è una vertigine? Una sensazione piena di mistero e, insieme, di minaccia. Nel mio romanzo la provo, sporgendomi sull’orlo tenebroso della cassapanca dove Sofia Vivier (la madre della protagonista) seppellisce i suoi oggetti preziosi (coralli di Torre del Greco, cristalli di Daum, statuine di Meissen) o affacciandomi alla finestra che Annetta sceglie come posto d’avanguardia per combattere la sua battaglia solitaria contro il mondo. Ne sento il brivido anche nel punto della pagina in cui semplicemente il testo finisce e, senza parapetto, si affaccia sul vuoto della pagina bianca. C’è chi ha definito angoscia la vertigine ‘in quanto temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso’. Questa frase illumina la vertigine più profonda che attraversa il mio piccolo romanzo, quella dell’amore disperato di Annetta per sua madre, le cui domande faccio riecheggiare in ogni pagina, come dal più fondo dei dirupi.In che modo possiamo “leggere” la scelta di Annetta che decide di dedicare tutte le sue attenzioni e il suo tempo alla mamma?
Quella di Annetta con Sofia è una storia d’amore e di attesa. La figlia attende da sua madre uno sguardo, una parola che non arrivano mai. L’attesa è tempo e, tra tutte le attese, quella della persona amata è il tempo più misterioso. Roland Barthes, nel suo notissimo saggio “Frammenti di un discorso amoroso” la mette in scena come una recita. Prologo: aspetto che l’altro arrivi e registro il ritardo. Primo atto: il dubbio (“E se non ci fossimo capiti?”). Secondo atto: l’ira (Avrebbe almeno potuto avvertire!). Terzo atto: l’angoscia pura, l’altro è come se fosse morto. E così, dice Barthes, se la persona attesa arriva nel primo atto, l’accoglienza è calma; se arriva nel secondo atto, ci sarà una scenata; se arriva nel terzo atto, chi ha atteso sarà addirittura riconoscente, quasi avesse ricevuto una grazia.
L’attesa di Annetta dura da così tanto tempo che è, appunto, nella fase dell’atto di grazia: la grazia che può dare una dea, così lei difatti vede sua madre. Attesa consapevole di chi sa di non poter fare diversamente. La ama con una dolcezza mista al risentimento per la fatica di amarla e all’impossibilità di non amarla. È un amore che non diventa mai odio, ma si trasforma in una piaga che non guarisce. E, mentre invoca la sua irraggiungibile madre, la stessa che sulla parete si staglia su di lei come una montagna, mentre la assiste e diventa madre di sua madre, Annetta cresce in altezza spirituale. “Con la passione di una mistica” ha scritto Emanuela Cocco, scrittrice ed editor, recensendo recentemente ‘Una minima infelicità’, e io sono molto d’accordo. L’infinita attesa di una parola e di uno sguardo materno ingigantisce Annetta spiritualmente, la fa risplendere come certe sante che, aspettando Dio, risplendono come lui. Non la religione, ma forse l’eresia è più nelle corde di Annetta, corpo differente, deviante. Ma ci vuole altrettanta fede e convinzione per essere ‘eretici’.
Clara Bigi: la domestica che in qualche modo rappresenta la condanna definitiva di Annetta a una vita piena di complessità. Com’è nato questo personaggio del libro? Hai avuto una fonte di ispirazione?
La domestica inaddomesticabile, che capovolge tutto: arriva al servizio della famiglia e finisce col mettere tutti al suo servizio. Sarebbe una guastafeste, se in casa di Annetta ci fosse una festa da guastare… Di sicuro è un’intrusa e, tuttavia, facendo sentire ancora più espulse dal mondo la madre e la figlia, le unirà. Clara Bigi fa emergere aspetti inediti non soltanto di Sofia Vivier, che persino nell’essere vittima è scandalosa (sembra quasi che ne tragga piacere), ma anche di Annetta, che comincia a mentire, inventando colpe della domestica al solo scopo di compiacere sua madre, e scopre l’odio, un sentimento che, nella sua irragionevolezza, somiglia molto all’amore. Clara Bigi non sarà mai scacciata a sufficienza dal sacrario della casa. Quando sarà licenziata, Sofia e Annetta non la nomineranno più, quasi incombesse su di loro il divieto anche di immaginarla, ma non la dimenticheranno.
Il personaggio ha una genesi curiosa perché nasce da una duplice ispirazione. Da una poesia di Iosif Brodskij, di cui conosco soltanto il titolo: “Il pensiero di te s’allontana, come una domestica licenziata”. E dal film “Il servo” di Losey, sceneggiato da Harold Pinter: un piccolo gioiello di figure ambigue, dove falsi duri incontrano falsi deboli, e in scena c’è un continuo gioco di sguardi intercettati attraverso uno specchio convesso, che amplifica lo spazio, lo duplica, lo deforma.
A colloquio con Elena Giorgiana Mirabelli
A margine della bellissima e partecipata serata, abbiamo conversato brevemente con l’autrice cosentina sulla voglia di scrivere contemporanea, nonostante i lettori siano sempre meno, e provato a tracciare l’identikit dello “studente” che partecipa ai suoi corsi di scrittura
Sembra un po’ un sillogismo… tutti amano scrivere, raccontare delle storie, magari raccontarsi… ma se nessuno legge perché c’è questa forte voglia di scrivere?
La scrittura serve a due cose. Molto spesso, a rendersi conto di quello che si vede, di quello che si pensa e di quello che si sente. Alcune persone sentono una necessità profonda per capirsi meglio e questa è legata, ad esempio, a tantissimi corsi di scrittura autobiografica. Da un altro verso, invece, si scrive perché vuoi che la tua voce venga ascoltata. Così, quello della scrittura, diventa un momento che ti permette di mettere ordine e quindi è un’esigenza di mettere ordine, essere ascoltati e percepire sé stessi meglio.
Hai diretto e tenuto tanti corsi di scrittura, anche per la prestigiosa Scuola Holden diretta da Alessandro Baricco. Se dovessi tracciare l’identikit del tuo “studente” tipico?
Sono persone curiose che per fortuna non hanno messo da parte l’aspetto ludico della scrittura. I corsi di scrittura devono essere divertenti perché rappresentano un’occasione. Ti stai dando l’occasione di prenderti uno spazio solo tuo, quando segui un corso di scrittura. Alcune persone lo fanno perché hanno altre esigenze, alcune persone vogliono uscire, mettersi in gioco, imparare delle tecniche. Uscire su una rivista o pensare a una pubblicazione. Quindi, esistono diverse tipologie di allievi. Alcuni lo fanno perché hanno la necessità di ritagliarsi un tempo per sé stessi, divertirsi, e altri hanno bisogno di acquisire delle tecniche per diventare autori più consapevoli. In entrambi i casi, l’aspetto ludico è fondamentale. Sono persone che si divertono.

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