Cosenza – Il Mediterraneo come luogo di un’esperienza di vita,come storia che ci portiamo appresso, come occasione di scambio, di condivisione e, proprio per questo, come prospettiva di futuro. La geografia dell’economia e della politica sta cambiando rapidamente. Il chiodo della crisi si è conficcato in un muro poroso e friabile: i processi accelerano, ma secondo tendenze consolidate. La fine della guerra fredda ha reso più largo l’Atlantico: il legame privilegiato che legava l’Europa e gli Stati Uniti, madre e figli della nostra cultura occidentale, non è più l’unico a condizionare rapporti e relazioni tra Paesi. Non c’è più un “loro” rispetto a cui possiamo dire “noi”: l’appartenenza comune resta un valore culturale, ma l’incontro con l’altro ormai contamina ed informa tutta la nostra esperienza. La breve storia degli USA come potenza egemone si va intrecciando sempre più con altri percorsi. Viviamo in un mondo molto più sfaccettato, plurale, complesso di quello che conoscevano i nostri padri. Per la nostra generazione, si tratta probabilmente dell’evento più significativo cui abbiamo assistito in diretta. La caduta del Muro ha capovolto il modo in cui guardiamo noi stessi ed il mondo. Abbiamo respirato, tutti insieme, l’aria di libertà che invadeva i Paesi ex sovietici e, per osmosi, un poco di più anche i nostri. Le conseguenze geopolitiche della caduta del Muro sono il vissuto dei nostri giorni. Inevitabilmente, dopo l’effimera illusione di un mondo unipolare e della fine della storia, essa ricomincia e ci riporta dove non ci saremmo aspettati. Emerge un nuovo grande asse, che non è più transatlantico, ma transpacifico: che vede gli Stati Uniti dialogare precipuamente con la Cina, tanto che oggi una delle grandi domande è se il G8 debba cedere il passo al G20, oppure al G2. Nuovi attori sono arrivati sul palcoscenico. Il miracolo asiatico, la straordinaria crescita del Far East che è frutto, in massima parte delle istituzioni buone ed amiche dello sviluppo, ci portano ad immaginare un’Europa sempre meno centrale, più marginale rispetto ai grandi giochi della politica ed alle grandi rotte degli scambi. E ancor più defilata, lontana dai grandi giorni, si sente la nostra Italia, dopo aver perduto lo status di terra di confine tra Ovest ed Est. Ma no è detto che sia così, non è detto che la marginalità sia inevitabile.
Sulle sponde mediterranee sono scesi i popoli del continente, da zone dell’interno alle quali il mare era estraneo. Conseguirono un’esperienza marittima, desumendola da quelli in cui si imbatterono, la lasciarono a quelli che ne presero l’eredità. Ciascuno imparò qualcosa da qualcuno o si ritenne, per altro verso, maestro di qualcuno: è un rapporto che si è mantenuto a lungo. Il Mediterraneo, dunque, nei secoli ha avuto un ruolo di luogo di incontro, conoscenza, scambio ed arricchimento. Quello che la società mediterranea ha nei secoli saputo costruire è proprio effetto di questi incontri. Lo scambio di merci e non le armi dei guerrieri, la contaminazione e non il respingimento, il dialogo e non la chiusura hanno dato vita a quell’originale civiltà di cui siamo figli. La riva, il porto, il molo ed il ponte della nave, la piazza cittadina ed il mercato, la pescheria, lo spazio vicino alla fontana o al faro, accanto alla chiesa o al monastero, il cimitero ed il mare stesso, diventarono palcoscenici aperti. Su quei mercati la vendita è qualche volta meno importante del commercio ed il commercio, a sua volta, meno della passione del commerciare. Il Mediterraneo è stato soprattutto questo: luogo dove il commercio e gli scambi hanno generato ricchezza e civiltà. Occorre, però, non dimenticarlo. La recuperata centralità logistica indotta dal tumultuoso affacciarsi di Cina ed India come protagonisti dell’economia globale, restituisce al Mediterraneo, dopo secoli, la sua storica posizione di cerniera nel crocevia dell’economia globale. Il richiamo alla costruzione di un’area di benessere condiviso, che sembrava essere la scelta strategica dell’Unione Europea contenuta nella dichiarazione di Barcellona del 1995, si è però nel tempo indebolita e declassata in una politica europea di buon vicinato. Una strategia col fiato corto e rinunciataria sul versante mediterraneo tanto più preoccupante se si considera quella ben più dinamica ed aggressiva dei Paesi Orientali. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello che entro venti anni il Mediterraneo diventi un’unica zona franca: senza dazi, senza barriere di natura non tariffaria allo scambio tra imprese di Paesi diversi. È questa la nuova frontiera. Ma la realtà è che siamo ancora lontani dalla creazione di una zona di libero scambio, anzi la risposta facile ad ogni crisi è il ritorno al protezionismo e l’inasprimento dei dazi. Solo politiche di crescente integrazione commerciale ed economica possono, invece, liberare le energie per una nuova grande fase di crescita. Un Mediterraneo nuovo ma antico, meno gravato da dazi e popolato da mercanti, in cui si scambiano merci, competenze, idee e tecnologie è sicuramente ciò di cui hanno bisogno i Paesi e gli abitanti delle due sponde.