L’ultimo periodo di dicembre, che coincide con la celebrazione del Natale cristiano e il passaggio dal vecchio al nuovo anno, è, fra tutti, il tempo più ricco di risonanze mistiche, sentimentali, emotive. In nessun altro, il rapporto con la tradizione è altrettanto forte: nel riconoscersi in un comune anelito religioso, nel rinsaldare vincoli familiari e affettivi, nel ripetere gesti, usanze, riti le cui origini si perdono nella notte dei tempi e delle quali dunque non si ha più coscienza. La luce in tutte le sue espressioni, dalle candele accese sull’albero alle decorazioni lungo le vie, alle vetrine variamente splendenti, è la protagonista dei giorni e delle notti: è una luce che sembra voler sottrarre tempo e spazio al buio ancora incombente, alla brevità dei dì e alla durata delle tenebre. Perché? Per comprendere pienamente tutto ciò, dobbiamo far riferimento al rapporto ancestrale tra l’uomo, gli eventi cosmici e il succedersi delle stagioni, dalle quali dipendeva il lavoro agricolo, il tempo della semina e quello del raccolto. Nell’arco dell’anno, gli appuntamenti più attesi e “temuti” erano i solstizi, quando la nostra stella sembra fermarsi nel cielo (sol stat), dopo aver raggiunto il culmine, nel valore massimo e minimo, della sua altezza rispetto al proprio orizzonte. I solstizi erano dunque vissuti come i due momenti cruciali dell’apparente viaggio del sole nella volta celeste: in tali occasioni, da tempi immemorabili, gli uomini hanno acceso fuochi, per entrare in sintonia col crescere o calare del massimo “fuoco” del cielo, il sole, e di conseguenza, per promuovere i raccolti, assicurare benessere e prosperità a sé, la propria famiglia e il bestiame, nonché allontanare calamità naturali e forze negative. Al solstizio d’estate appartenevano, in tutte campagne europee, e anche qui da noi all’Elba, i fuochi di S. Giovanni, sicuramente di remota origine precristiana, detti anche “fuochi di gioia”, grandi falò intorno ai quali ballare, rinsaldare i legami di solidarietà e esorcizzare, in qualche modo, l’inevitabile inizio della “discesa”solare. Ma anche il solstizio d’inverno aveva i suoi fuochi, perché attraverso le fiamme si richiamava “ il luminare del cielo” a nuova vita, dopo che era apparentemente “morto” nel il dì più corto dell’anno.
Nel Cristianesimo moderno, l’antica festa del fuoco di dicembre è sopravvissuta fino a tempi recenti, nelle campagne francesi, tedesche, inglesi e italiane (soprattutto in Umbria e in Romagna), nella vecchia usanza del ciocco o ceppo di Natale, un grosso pezzo di legno, possibilmente di quercia, da bruciare in quei giorni e da conservare, nei suoi resti e nelle sue ceneri, per la buona fortuna della casa. Del resto la “positività” dell’usanza è sopravvissuta anche all’Elba nel significato “aggiunto”che le persone anziane attribuiscono tutt’oggi al termine “ceppo”, intendendolo come regalo. Il rito del ciocco, insomma, sarebbe la trasposizione privata e domestica, al riparo dal freddo e dal brutto tempo, del falò estivo di S. Giovanni. Dunque, il desiderio che proviamo a Natale di rendere più accogliente e luminosa la nostra casa ha radici lontane! Del resto, la stessa data del 25 dicembre per festeggiare la nascita del Cristo, come sappiamo, è convenzionale, perché ignoriamo quella esatta: solo nel IV secolo essa fu scelta e diffusa dalla Chiesa, facendo così coincidere il Natale con i giorni del fuoco e della luce del solstizio invernale. La nostra Isola vive nel periodo natalizio tradizioni non dissimili da quelle nazionali o internazionali, come è ovvio. In quasi tutte le abitazioni convivono albero di Natale e Presepe: il primo, di origine nordica, collegato ai riti propiziatori di tipo agrario, è relativamente recente (XVI sec.); il secondo sembra invece risalire a S. Francesco. Entrambi trovano posto nelle nostre case e non è raro che proprio ai piedi dell’abete illuminato e adorno, distendiamo il muschio (da noi “erbino”) possibilmente bianco, raccolto in campagna o in pineta, e su questo posiamo le pecore e i pastori, i Re Magi in cammino e la capannuccia con la Sacra Famiglia.
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Accanto ai due simboli per eccellenza, non può mancare il vischio, pianta di buon augurio, chiamata “ Il ramo d’oro” dall’antropologo inglese Frazer, che ha intitolato così una sua celebre opera sulla magia e la religione, dedicando grande spazio alle leggende e ai riti legati a questo arbusto. La tradizione è di ampia diffusione, non solo europea, e la sua origine si perde in un remotissimo passato. Virgilio ne fa portare ad Enea un ramo nella sua discesa al tenebroso mondo sotterraneo: il poeta ci racconta infatti come, proprio alle porte dell’inferno, si stendesse un bosco vasto e oscuro e come l’eroe, seguendo il volo di due colombe che lo guidavano, andasse errando nella vastità della foresta eterna, finchè non vide in lontananza, attraverso le ombre degli alberi, brillare tremolante la luce del vischio. Quale migliore viatico da portare con sé? In natura, il vischio è una ben strana creatura, verde quando tutti gli alberi sono spogli, con foglie ovali che assomigliano a orecchie di coniglio e bacche bianche, ghiottoneria di merli, cinciallegre e capinere. Una volta raccolto, perde il suo colore primitivo per diventare sempre più dorato, tanto che tra le innumerevoli virtù magiche che gli sono state attribuite, c’è anche quella di brillare nel buio in vicinanza di giacimenti d’oro. Gli antichi credevano che fosse generato dal fulmine caduto sui rami e che conservasse in sé il potere del “fuoco celeste”. In realtà non è nemmeno una pianta, ma un semi-parassita, perché possiede polloni che penetrano nel tronco ospitante succhiandone la linfa, ma è indipendente per lo sfruttamento dell’acqua e della luce, dato che produce da sé la clorofilla. Non è quindi nocivo come l’edera, che può far morire l’albero a cui si attacca. Da tempo immemorabile, il vischio è stato oggetto nel vecchio continente di una superstiziosa venerazione, specie presso i Celti.
Plinio ci informa che era adorato dai Druidi, i loro sacerdoti-maghi, che “non stimano nulla di più sacro del vischio e dell’albero su cui cresce, purché quest’albero sia una quercia; essi credono infatti che qualunque cosa cresca su quest’albero sia mandata dal cielo e sia segno che l’albero è stato scelto dal dio stesso”. Al vischio sia gli antichi Galli che gli antichi Italici attribuivano meravigliose capacità medicinali, considerandolo un rimedio utile per ogni malattia attraverso decotti e pozioni. Per ottenere simili risultati, occorreva però cogliere la pianta in un certo modo e tempo, altrimenti non avrebbe potuto esercitare le sue virtù: non si doveva tagliare col ferro, ma con un falcetto d’oro e si doveva impedire che toccasse terra cadendo, per questo la si raccoglieva con un panno bianco, a mani e piedi nudi. Tale venerazione nei confronti del vischio, condivisa anche da antichi popoli africani, sembra derivare dal fatto che si intuiva qualcosa di soprannaturale in una pianta che cresce senza avere radici in terra e che perciò appariva venuta dal cielo, un dono della divinità stessa. Tra i principali pregi, quello di proteggere dal “mal caduco” e se ne intuisce la ragione: come il vischio non cade in terra perché è radicato su un ramo d’albero molto alto, così un epilettico non può cadere durante un attacco se ha un pezzo di vischio in tasca o un decotto di vischio nello stomaco. La mitologia norvegese ne sottolinea il legame con Balder, figlio di Odino, una delle divinità più amate, che morì colpito dal vischio: in memoria del dio, i popoli nordici erano soliti bruciare i rami della pianta in prossimità del solstizio d’estate, allo scopo di allontanare la sventura e invocare la prosperità e il benessere. Probabilmente il significato oggi attribuito al vischio deriva da queste antichissime credenze popolari, anche se per motivi complessi e non del tutto chiari, il rito è stato “spostato” all’inizio del solstizio d’inverno. E’ infatti tra la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno che doniamo o teniamo in casa questi rametti, nella speranza di proteggere in tal modo la casa, le persone a noi care e noi stessi dai guai e dalle disgrazie. Il Cristianesimo, com’è naturale, si dimostra inizialmente diffidente nei confronti di una pianta legata alla mitologia celtica e germanica; così è nata persino la leggenda che una volta il vischio fosse un albero come tutti gli altri: al tempo della crocifissione del Cristo, quando tutte le piante si rifiutarono di collaborare, il vischio offrì i suoi rami per costruire la croce, allora fu maledetto e li perse per sempre. Accanto a questa leggenda, ne fiorisce però un’altra, secondo cui, proprio per la sua nascita misteriosa, è simbolo di Cristo, figlio di Dio. La medicina moderna esprime molte riserve sul suo uso: in dosi eccessive può provocare la perdita di sensibilità, una progressiva paralisi e addirittura l’arresto cardiaco. D’altra parte sembra però che sia un regolatore della pressione arteriosa, ottimo antiemorragico, analgesico e diuretico. Un tempo si usava con successo contro l’epilessia, l’asma, l’isteria e se ne è parlato come di un anticancerogeno. Oggi gli erboristi gli preferiscono specie meno pericolose.
Dato che, comunque, continuiamo a tenercelo vicino e a baciarci sotto il vischio ad ogni capodanno, la sua valenza principale deve assolutamente restare quella di portafortuna!
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Se dalle tradizioni nazionali ed internazionali, passiamo a quelle più nostrane, la principale connotazione gastronomica del Natale è, almeno nella parte orientale dell’Elba, la schiaccia briaca, splendido “manufatto” una volta rigorosamente invernale e oggi, per motivi turistici, dolce di tutto l’anno, almeno nei forni che lo producono, nei negozi alimentari e nei supermercati. Se ne conoscono diverse varianti, ma tutte comunque basate sull’esclusione di burro e uova dall’impasto, nel quale devono invece fondersi, almeno secondo la mia ricetta di famiglia, armonizzandosi ed esaltandosi a vicenda, farina, zucchero, olio d’oliva, scorza d’arancia, vino bianco e rosso, meglio se aleatico, frutta secca ( mandorle, noci, pinoli). Il profumo che danno a questo meraviglioso amalgama il vino e l’olio riscaldati, quando si uniscono al resto e lo intridono, è unico: è, in tante case, l’aroma stesso del Natale, la memoria dell’infanzia, la rassicurante consapevolezza che, almeno per questa tradizione e nel suo trasmettersi di generazione in generazione, i gusti e i “valori” dei padri sono raccolti senza contestazione dai figli. Il dolce, per le caratteristiche della sua composizione, si prestava ad essere conservato per lunghi periodi, anche a bordo, dai marinai elbani e costituiva una sorta di legame con i colori e i sapori dell’isola lontana. La schiaccia briaca, in molte delle nostre case, accompagna gustosamente la serie dei giorni che legano il Natale all’ultima festività del periodo, l’Epifania, popolarmente Befana, ricorrenza dal sapore antico, un tempo celebrata con la stessa solennità del 25 dicembre. Era anzi proprio in questo giorno, che rievoca la manifestazione della divinità del Cristo ai Magi e al mondo, che i nostri nonni e genitori ricevevano regali e dolcetti!
Molte tradizioni, come sappiamo, sono legate alla Befana, generosa dispensatrice di doni, ma anche, nel folklore, rappresentante dell’anno vecchio, la quale, proprio per questo, meritava “il rogo”: il suo sacrificio rituale, a inizio gennaio, veniva vissuto come il presupposto per una partenza positiva dell’anno nuovo. Del resto, in molti paesi europei, i dodici giorni che separano il Natale dal 6 gennaio erano considerati “il periodo delle streghe”e l’ultimo era scelto come il tempo più adatto all’espulsione delle potenze del male. In Svizzera, sul lago di Lucerna, i ragazzi andavano in processione, la notte dell’Epifania, portando torce e facendo un gran fracasso con corni, campane e fruste, per spaventare gli spiriti della foresta. La gente credeva che, se non si faceva abbastanza rumore, non ci sarebbe stata frutta quell’anno. Nella Francia meridionale, la gente correva per le strade muovendo campanacci e sonagli e facendo ogni sorta di rumore. Qualche traccia, cristianizzata e ingentilita di queste tradizioni, è forse rimasta nell’usanza, che ancora sopravvive in alcuni nostri paesi, per esempio Rio nell’Elba, di andare in gruppo, di casa in casa, la notte tra il 5 e il 6 gennaio, a “cantare la Befana”, ricevendone in cambio saluti, ringraziamenti e offerte di vino. Ecco alcune strofe del canto, ricostruite dalle signore Josette Maggesi e Sebastiana Sardi, di Rio, a cui appartiene anche la foto di questa bella e rara nevicata:
Dio vi dia la buona sera
generosa compagnia…
Salutiamo il padron di casa/
e la nobil compagnia.
[…]
Santa nova noi vi diamo
che è nato il re del mondo
in un parto così giocondo;
molto bene vi auguriamo
[…]
Egli è nato in Betelemme
in città della Giudea,
presso di Gerusalemme
sopra il fien egli giacea.
[…]
Signor…, vi auguriamo
la Befana senza affanno!
Buona notte, noi ce ne
andiamo,
torneremo quest’altr’ anno!
da “Mare, more e colibrì” di Maria Gisella Catuogno Ed. Liberodiscrivere