Elba, il significato di chiamarsi Aethalia

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di Stefano Tamburini
Per tanti elbani o elbani a metà come me, Aethalia è molto più che un nome. E non solo perché l’Elba anticamente si chiamava proprio così: per noi, per tantissime persone, quello è anche il nome della nave dell’infanzia, quella degli amori dei nostri padri e delle nostre madri. E anche di molti ragazzi delle vacanze mordi e fuggi: quelle con la Vespa, una tenda e senza una meta precisa. Era la nave degli amori sbocciati da fine anni Cinquanta in poi sulle due sponde del canale di Piombino. Era il traghetto che faceva da ponte, rendeva l’isola meno isola e portava cuori e passioni su e giù per epiche libecciate e tempeste drammatiche sospinte dai venti di mezzogiorno. Il traghetto che oggi onora quel nome, varato nel 1991, è come se portasse ancora in giro la sagoma elegante del “vapore” (così i vecchi elbani definivano le navi) che lo ha preceduto, varato nel 1956 e andato avanti fino al 1988 prima di finire i suoi giorni su rotte prima greche, poi panamensi e infine in Tanzania, cambiando nome: Pergamus e poi Canadian Spirit. Era stato il primo traghetto europeo moderno, quello con il garage e le rampe di ingresso a poppa e a prua. Prima di allora le auto venivano imbracate, sollevate con le gru e appoggiate sul ponte. Gli elbani e anche i piombinesi a quel traghetto gli volevano bene e non solo per gli amori che riusciva ad alimentare. Gli storpiavano il nome: “Ahitalia”, “Alitalia” (sì, c’era chi lo chiamava come la compagnia aerea), “Aletalia” ma era “il” traghetto. Le altre navi erano contorno: l’orario nobile, quello dell’ultima partenza per il continente era sempre il suo, così come quello della prima mattinata. Era anche il “postale”, quello con la corsa sovvenzionata dallo Stato, con i biglietti a prezzo ridotto. Aveva la prima e la seconda classe, divani in pelle e sedie pagliate legate con le catene al pavimento insieme con i tavoli. C’era il bar e c’erano le bottiglie che quando soffiava il libeccio volavano che era una meraviglia. E c’era il ponte in alto accanto al fumaiolo, con la sirena dal suono inconfondibile, più imperioso di quello degli altri. Alle navi non si dovrebbe mai cambiare nome, e non solo per una storia di scaramanzia. Le navi hanno un’anima, ti guardano e ti parlano. Hanno un loro profumo che non è solo quello del carburante bruciato ma anche del legno e degli ottoni lucidati. Da bambino trascorrevo tutte le estati da mia nonna, a Portoferraio, di fatto sulla spiaggia del Grigolo. E gli arrivi e le partenze scandivano le giornate: l’ora di pranzo era l’approdo dell’Aethalia, quando ripartiva per l’ultima corsa della sera bisognava rientrare per cena. Gli elbani più anziani all’inizio quella nave la guardavano con diffidenza, poi impararono ad apprezzarla. La chiamavano “la ballerina”, perché rollio e beccheggio erano eccessivi. Poi la modificarono nella chiglia e divenne la migliore. Fino all’arrivo dei traghetti di nuova generazione, quelli degli anni Ottanta e che sono ancora in servizio (Oglasa, Liburna, Marmorica) era il top, poi per un po’ ha continuato a viaggiare, da ammiraglia diventata mascotte. Comunque sempre bella anche da anziana. La Toremar ci rinunciò a malincuore ma dette quel nome a un altro traghetto. Era ed è un modo per farlo continuare a vivere, per alimentare ricordi di migliaia di persone che non salivano solo su un “vapore” ma lo sentivano vivo, lo sentivano soffrire quando il mare era in tempesta, quando manovrava nelle acque poco profonde del Cavo o nel porto di Piombino per girarsi di poppa. Il movimento delle eliche faceva tremare tutto e tutti. Ancora oggi quando passa l’altro traghetto con quel nome magico basta chiudere gli occhi ed ecco che dai ricordi riemerge quella nave che solcava il mare e al tempo stesso i nostri sogni. Dare dei colpi di vernice su quel nome è un dispetto alla memoria di tanti che non ci sono più, uno schiaffo ai tanti che ci sono ancora. Gente che alla parola nave associa quel nome. I nuovi capi della Toremar forse tutto questo non lo sanno. Se sapessero, se avessero vissuto momenti come quelli non ci penserebbero neanche per un attimo a cancellare Aethalia. Non sanno che quel nome non è loro, è di tutti. Per questo va lasciato dove è: a prua e a poppa, a navigare per noi e per chi c’è stato prima. Buon vento, Aethalia. Comunque vada. @s__tamburini (da “Il Tirreno”, 8 ottobre, 2016)

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