Anche l’emergenza Covid-19, come tutte le crisi, ha rappresentato e continua ad essere un momento di oggettiva novità, che determina ripensamenti, produce sintesi e sprona a sperimentare altro, incluso il ritorno a ciò che è stato già conosciuto e vissuto in passato. Riuscire a trarre energie, progetti e prospettive inedite da ogni fase di crisi e di rimescolamento di quanto già visto è un meccanismo essenziale nei processi di cambiamento e di adattamento come quello che stiamo vivendo, soprattutto per il mondo occidentale. E resta una delle sfide professionali ed esistenziali più affascinanti.
È quanto dichiara l’architetto Francesca Felice, responsabile del progetto Nostos – Rete degli alberghi diffusi per la quale la cosiddetta fase 2 nella quale stiamo entrando in punta di piedi può rappresentare – spiega – in modo particolare per le regioni meridionali e per la Calabria, una stagione di buona progettazione architettonica, indotta anzi tutto dalla necessità di offrire risposte nuove, abitative ed urbanistiche, alle questioni sanitarie e sociali imposte dalla pandemia.
È stata illuminante – continua – la riflessione condivisa nelle scorse settimane dall’architetto Massimiliano Fuksas sia sul kit di pronto soccorso da predisporre in ogni appartamento (con saturimetro, termometro, attacco per erogatore di ossigeno, telecamera, smartphone o computer); sia, più in generale, sulla necessità di prevedere e realizzare, per il futuro, spazi comuni più adatti per ulteriori fasi di serrata (lockdown) con le quali dovremo probabilmente convivere, mettendo al centro dell’agenda progettuale dei prossimi anni un’attenzione diversa al trattamento dell’aria di case ed uffici e con sistemi eco-sostenibili. Ancora una volta – prosegue l’urbanista ed interior designer – siamo di fronte ad un ritorno, in questo caso alla progettazione di spazi comuni già sperimentata negli anni ’60 del secolo scorso col modello abitativo del cohousing (co-residenza) in Scandinavia e diffusosi successivamente in tutto il Nord Europa, in Australia, negli Usa ed in Giappone; un format che combina autonomia dell’abitazione privata e condivisione di spazi e servizi comuni da parte di un gruppo limitato di nuclei familiari.
Ci stiamo preparando – scandisce – a ridare priorità alla buona pratica dell’architettura, a progettare senza avere come primo obiettivo lo sfruttamento e l’utilizzo di tutti gli spazi ad uso abitativo, ma prediligendo, al contrario, spazi liberi (siano essi chiusi o aperti) e di multifunzionalità comune. Per le nuove costruzioni, ciò significherà dare priorità al massimo circolo dell’aria con sistemi ecosostenibili di filtraggio e pulizia.
Ma cambierà anche la progettazione e la ristrutturazione delle abitazioni esistenti il che forse – chiarisce – resta la sfida più ardua, soprattutto qui al Sud Italia e nei nostri territori dove il grande patrimonio edilizio esistente, conseguenza dello spopolamento dei centri storici e dell’entroterra degli ultimi 30 anni ha dato e continua ad offrire spazi importanti all’attività di recupero edilizio. Adesso – aggiunge l’architetto – dovremo abituarci a prevedere più aperture e ridurre, se possibile, la volumetria.
Si tratta di far diventare più nostro un metodo progettuale e di housing più sano, in linea con quanto già sperimentato altrove in Europa; un modo di intendere diversamente lo spazio abitativo che per anni, soprattutto alle nostre latitudini ha spesso coinciso, culturalmente e materialmente, in risultati evidenti, talvolta megalomani e maniacali di estremo sfruttamento degli spazi edilizi. Il superamento, in corso, della fase 1 del Coronavirus ci lascia quindi qualche consapevolezza in più, a partire dal fatto che le regioni del Sud, sicuramente quelle più lontane dagli indici di misurazione della cosiddetta modernità urbanistica ed infrastrutturale e risultate meno esposte alla diffusione del contagio come la Calabria, invertendo rotta rispetto al recente passato possono capitalizzare risorse evidenti come la maggiore qualità dell’aria, gli spazi aperti e naturali, gli antichi sentieri (mulattiere e vie dell’acqua), campagne ed entroterra ancora quasi vergine o rimasto fotografato a secoli fa. Ecco perché – conclude Francesca Felice – mi piace pensare a questa ripartenza in atto come ad una bella ventata di positività e di miglioramento anche nella buona progettazione architettonica, libera da retaggi culturali e proiettata verso una maggiore qualità della vita pubblica e privata.