“Nostro figlio ucciso due volte”

0
547

Anche oggi, come da dieci anni ogni 13 agosto, un cuscino di fiori arriverà alla caserma “Gamerra” di Pisa. Viene da Lido di Noto, sul lungomare siracusano. Lo mandano i genitori di Emanuele Scieri, l’allievo paracadutista morto dieci anni fa, ucciso da mani che sono rimaste ignote. Così recita l’atto di archiviazione delle indagini. «Non abbiamo mai cessato di sperare nella verità e nella giustizia», dice la madre, Isabella Guarino.
 «Quei fiori – aggiunge – sono a testimoniare il nostro dolore. Noi vorremmo che fossero collocati ai piedi della torre di prosciugamento dei paracadute, dove Emanuele è morto. Forse, invece, finiranno nella cappella della caserma. Li mettano dove vogliono…».
 Dieci anni hanno cambiato tutto in questa famiglia travolta dalla tragedia, al contrario del dolore, sempre uguale, che sembra aver pietrificato gli sguardi.
 Il padre, Corrado, che era un funzionario della Dogana di Siracusa è andato in pensione. Rispetto alle fotografie che lo ritraevano all’indomani della morte del figlio, ha i capelli ingrigiti, il volto scavato e infossato.
 Anche la madre, insegnante di lettere alla scuola media “Archimede”, è andata in pensione e adesso non si concede che qualche piccolo sorriso amaro e austero, sotto una calma che cela un piccolo cedimento alla rassegnazione: «Certe perdite rendono deboli…», dice.
 I coniugi Scieri sono nella piccola casa delle vacanze, nella strada principale della marina di Noto, il giardino di pietra del barocco che sembra fatto apposta per conservare la memoria del lutto. Come un grande cimitero.
 «E’ qui, in questo salotto, che apprendemmo della morte di nostro figlio», ricorda Corrado Scieri. Anche allora, come oggi, c’era l’altro figlio, Francesco, che adesso ha 37 anni, nel frattempo si è sposato, specializzato in urologia a Trieste e lavora all’ospedale “Sacco” di Milano. Oggi c’è anche “Ottone”, un boxer francese bianco e nero, che dalla terrazza vigila su quell’umanità dipinta di tatuaggi che scalpita sulle ciabatte infradito nella calura della strada e della spiaggia.
 «Ci telefonarono da Pisa, era il 16 agosto – dice il padre – e ci fecero strane domande. Volevano scavare nella vita di Emanuele, chiedevano se soffriva di depressione, se era in cura, se assumeva psicofarmaci, se aveva mai manifestato l’intenzione di uccidersi… Cose da non credere alle proprie orecchie. Emanuele si era laureato in giurisprudenza a Catania con 107, non aveva mai ripetuto un esame. Aveva la stima dei suoi docenti, uno dei quali ci ha anche scritto una lettera commovente. Aveva fatto il praticante in uno studio per circa sei mesi, poi era partito per il servizio militare. Nonostante avesse superato l’esame per fare l’ufficiale di complemento, preferì andare nei paracadutisti, sia pure come soldato semplice. Non era un esaltato o un fanatico, ma un giovane pieno di vita. Voleva volare, guardare il mondo dall’alto».
 Emanuele voleva volare, ma non dalla cima della torre di prosciugamento, come avvenne la sera del 13 agosto 1999. Dieci anni dopo la famiglia vorrebbe uno slancio di verità per sapere chi lo costrinse a salire fin lassù, la prima sera che aveva varcato il portone della caserma di via di Gello. Ma soprattutto vorrebbe conoscere cosa e chi mise in moto quella catena di omertà, di bugie e di silenzi che prima ha ritardato le ricerche del corpo, poi ha insabbiato le indagini sulle responsabilità.
 «Dopo tanto tempo – dice Isabella Guarino – è difficile credere in un rimorso che faccia scattare un atto di giustizia, ma qualche volta i tormenti hanno bisogno di molti anni. Certo che tutto è andato nella direzione opposta, perché anche chi avesse avuto la voglia e il coraggio di parlare è stato intimidito. Guardate cosa capitò all’ex capitano Mario Ciancarella… Disse di aver raccolto una testimonianza anonima, la confidò al procuratore Iannelli e lui lo fece arrestare per calunnia. L’unico, in tutta questa vicenda, ad essere finito in carcere, è la persona che si è adoperata per far compiere alle indagini un passo in avanti».
 «Era tutto sbagliato, tutto contrario alla logica – dice Corrado Scieri – e io lo feci notare al procuratore. Non insistettero con Viberti, il commilitone che trascorse gli ultimi minuti insieme a lui, fino in caserma. Nella conclusione delle indagini l’hanno definito “testimone di verità non rivelate”, ma si sono contentati. Chiesi al procuratore di passare le indagini alla polizia, perché i carabinieri dipendono dal ministero della Difesa, come i paracadutisti. E lui a quel punto si adirò molto e cambiò atteggiamento nei nostri confronti. Ci fece sentire quasi indagati, altro che i genitori della vittima. Venne perfino un capitano dei carabinieri, a casa nostra, voleva interrogare me e mia moglie separatamente. Come se fino a quel momento si fosse nascosto qualcosa. Ma erano domande senza senso, offensive. Ci chiese se Emanuele, da ragazzo, aveva la passione di arrampicarsi sugli alberi. Lo voleva far passare per un pazzo, per un maniaco delle scalate notturne?».
 I coniugi Scieri hanno scritto anche un libro sulla morte del figlio, il cui titolo (“Folgore di morte e di omertà”, edizione Kaos) è un atto di accusa nei confronti dei vertici dei paracadutisti. Un mondo – dicono – che si è svelato ai nostri occhi in modo drammaticamente sconcertante.
 «Io – racconta la madre – ero contraria, non volevo che Emanuele facesse il parà. Ma non per qualche pregiudizio, semplicemente perché da mamma avevo paura dei lanci. Ma quello, invece, non era il peggio. La morte di mio figlio ha portato alla luce un nonnismo feroce e omicida, coperto e forse anche incoraggiato dai vertici militari. Abbiamo letto quel libello del generale Celentano, indice di una rozzezza e di una brutalità fanatica e razzista. Con mio marito abbiamo scritto, nel nostro libro, che la supercaserma orgoglio e vanto delle nostre forze armate si è rivelata un covo omertoso al cui cospetto Cosa Nostra impallidisce. E nessuno ci ha querelato».
 Sono passati dieci anni. Sono serviti solo a far trascorrere il tempo necessario alla burocrazia perché il Comune di Noto possa intitolare una rotatoria all’allievo paracadutista Emanuele Scieri.
 «Adesso – dice Scieri – la ferma di leva non c’è più. In divisa ci sono anche le donne. I vertici militari dicono che tutto questo serve per cambiare. Già, cambiare… Ma che cosa? Non dicevano che andava tutto bene?».
 Di quella buia notte ferragostana nei vialetti della caserma, resta una scia di sangue e di dolore che lascia un’ombra scura nei bagliori infuocati dell’estate siciliana.

da “Il Tirreno”, agosto 2009

Articolo precedenteMarciana Marina, la regina della musica all’Elba
Prossimo articoloScimmie, imitarle per diventarne amici

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here