Pd, Forza Italia, M5s e Leu: tutti fanno ricorso alle pluricandidature. Se non ci sono grandi differenze nei numeri, più articolate appaiono le strategie elettorali dei partiti: dal paracadute per bocciature all’uninominale alla difesa delle candidate donne.
La raccolta dei dati
La nuova legge elettorale permette ad alcuni candidati di presentarsi in più collegi plurinominali (fino a un massimo di cinque), oltre alla possibilità di correre anche in un solo collegio uninominale. Dopo aver discusso e criticato le ragioni di questa scelta da parte del legislatore, cerchiamo di capire se i partiti hanno in effetti sfruttato la possibilità oppure no. Si tratta di un lavoro complicato sotto diversi aspetti.
Innanzitutto, le liste dei candidati non sono sempre disponibili (e alcuni partiti sono perfino restii a fornirle); quando sono disponibili, non sono sempre maneggiabili; infine, vista la mole di dati coinvolta, gli errori possono sempre capitare. Chiediamo quindi anticipatamente scusa se qualcuno dovesse riscontrare errori e siamo ovviamente disponibili a correggere gli elenchi. Allo stesso modo, se ci fossimo dimenticati di qualche candidato plurimo – e questi si sentisse escluso – saremmo ben felici di integrare gli elenchi con la sua segnalazione.
Vale la pena di enfatizzare un punto: il lavoro ha solamente finalità espositiva; fornisce esclusivamente un’informazione aggiuntiva sulla strategia elettorale attuata dai partiti; le liste dei pluricandidati, infatti, non dicono nulla sulla qualità di chi si candida, che ogni elettore giudicherà secondo i propri criteri.
Analizziamo quindi le liste dei quattro principali partiti all’interno delle altrettante coalizioni. L’analisi sarà estesa agli altri partiti se e quando le loro liste saranno disponibili.
Tutti e quattro i partiti considerati fanno ampio ricorso alle pluricandidature: Liberi e Uguali guida la classifica, con 112 candidati in più collegi elettorali (72 alla Camera e 40 al Senato), segue il Partito democratico con 85 pluricandidati tra Camera (53) e Senato (32). È poi la volta del Movimento 5 stelle, con 53 pluricandidati alla Camera (curiosamente, lo stesso numero del Partito democratico) e 29 al Senato (per un totale di 82). Chiude Forza Italia con 66 pluricandidati (47 alla Camera e 19 al Senato).
Le differenze numeriche non appaiono né particolarmente significative né sorprendenti: Liberi e Uguali è il partito più piccolo ed è naturale che ricorra di più alle pluricandidature. Tuttavia, emerge una chiara differenza tra le strategie. Il Movimento 5 stelle prevede una sola modalità di candidatura multipla: un seggio uninominale supportato da un solo posto in lista al proporzionale. Gli altri tre partiti più tradizionali, invece, presentano alcuni candidati anche in sei collegi (5 plurinominali e 1 uninominale).
È molto probabile che la strategia del primo sia semplicemente quella di offrire un paracadute al candidato eventualmente bocciato all’uninominale, mentre quella dei secondi appare più articolata. Oltre ad assicurare l’elezione, infatti, all’aumento del numero di presenze in liste proporzionali è solitamente associata anche una valenza politica. Per esempio, la volontà di rimarcare la propria proposta politica enfatizzando la figura del candidato: è il caso dei leader di partito (come Pietro Grasso e Laura Boldrini), di personaggi di primo piano a livello politico o elettorale (Renato Brunetta e Mariastella Gelmini), ma anche di alcuni outsider particolarmente valorizzati dal partito (Lucia Annibali per il Pd). Molte tra le pluricandidature più pesanti (la categoria “5 + 1”) sono femminili, forse segno anche questo di un messaggio politico all’elettorato. Infine, si spiega probabilmente con la volontà del Pd di fare quadrato intorno ad alcune figure che hanno subito fortissimi attacchi durante l’esperienza di governo la previsione di candidature plurime per Maria Elena Boschi, Valeria Fedeli e Marianna Madia.
Paolo Balduzzi