Assicurazione dei depositi: attenti alle bufale
Dopo il polverone sollevato dalle audizioni prenatalizie della Commissione parlamentare d’inchiesta, sul tema banche è calato il sipario. La relazione finale, che pure contiene indicazioni utili, è caduta nel vuoto. La campagna elettorale brilla per promesse di tagli alle imposte e maggiori spese, mentre nessuno fa parola dei problemi del sistema bancario e della tutela dei risparmiatori. È un tema scomodo, che nessuno vuole affrontare a pochi giorni dalle elezioni. Ma è una questione a cui il prossimo governo dovrà dedicare molta attenzione. Non solo perché abbiamo i problemi di casa nostra, ma anche perché l’Europa si sta muovendo sul fronte bancario; e se noi restiamo alla finestra, decideranno gli altri.
La cancelliera Angela Merkel ha recentemente aperto al completamento della Unione bancaria, con l’introduzione di una assicurazione europea dei depositi, e su questo ha trovato l’appoggio del presidente francese Emmanuel Macron. Ma attenzione, perché dietro alle belle parole si nasconde il tranello. È molto probabile che Germania e Francia convergano sulla proposta avanzata di recente dalla Commissione UE, che rappresenta un arretramento clamoroso rispetto al progetto originale. L’ipotesi della Commissione dell’ottobre 2017 prevede infatti che il futuro European Deposit Insurance Scheme (Edis) faccia solo prestiti ai sistemi nazionali di assicurazione dei depositi, qualora abbiano esaurito i loro soldi. Non ci sarà quindi alcuna condivisione delle perdite, anche se il meccanismo viene chiamato (impropriamente) “ri-assicurazione”. Al contrario, la versione avanzata dalla Commissione nel 2015 stabiliva il passaggio graduale a un vero e proprio fondo comune di livello europeo, per garantire il rimborso dei depositi di banche liquidate (fino alla soglia dei 100mila euro). Il futuro governo italiano dovrebbe insistere perché la trattativa riprenda a partire dal progetto originale, non dalla recente proposta, che è già così annacquata da fare contenti i tedeschi.
Più pressione sui crediti deteriorati? No, grazie
Il recente paper di economisti franco-tedeschi, che è stato ripreso ampiamente nel dibattito poiché alcuni di loro sono considerati “consiglieri del principe”, contiene una affermazione che la dice lunga sull’atteggiamento dell’establishment europeo: “le autorità di supervisione dovrebbero aumentare la loro pressione perché si riducano i crediti deteriorati esistenti” (pag. 6).
Francamente, sembra che di pressione ce ne sia già abbastanza. Il controverso Addendum della Banca centrale europea è destinato a dare una accelerazione alle rettifiche sui nuovi crediti deteriorati, imponendo rilevanti costi alle banche italiane. La stessa Bce ha annunciato l’arrivo di un ulteriore provvedimento relativo allo stock di crediti deteriorati in essere. Oltre a ciò, i governi europei hanno già impostato, nel Consiglio europeo dell’11 luglio 2017, un piano d’azione ad ampio raggio, che coinvolge le altre istituzioni europee (Bce, Commissione UE, European Banking Authority) e che prevede diverse misure, destinate ad aumentare la pressione regolamentare sulle banche. Peraltro, gli istituti italiani stanno già riducendo in misura significativa lo stock di crediti deteriorati, attraverso operazioni di cessione e cartolarizzazione. È un processo che richiede tempo: ulteriori forzature da parte dei supervisori imporrebbero costi ingiustificati. Senza contare che prima o poi bisognerà affrontare i rischi accumulati dalle banche tedesche e francesi, imbottite di titoli opachi e illiquidi (come documentato dalla Banca d’Italia).
Titoli pubblici nei bilanci delle banche
La questione più spinosa è quella dei titoli del debito pubblico detenuti dalle banche. Quelle italiane hanno il 9 per cento del loro attivo concentrato sul rischio rappresentato dal Tesoro italiano.
Su questo fronte circolano diverse ipotesi. Una è quella di attribuire ai titoli pubblici un peso positivo nel calcolo dei requisiti patrimoniali. L’altra è porre un limite al portafoglio di titoli pubblici del proprio paese che una banca può detenere. La prima modalità andrebbe respinta: implicherebbe che i titoli pubblici di paesi con rating elevato (come Germania e Francia) continuerebbero a godere di un peso al rischio pari a zero, mentre altri paesi (tra cui l’Italia) avrebbero un peso del 50 o del 100 per cento, quindi sarebbero penalizzati. La seconda strada sembra più equa: si imporrebbe gradualmente un limite di concentrazione da applicare in modo uniforme ai titoli dei diversi paesi.
Finora la posizione italiana (governo e banche) è stata di totale chiusura su questo fronte. Sarebbe meglio passare a una impostazione più ragionevole, dove il limite di concentrazione venga negoziato in cambio della assegnazione esplicita alla Bce del ruolo di prestatore di ultima istanza degli Stati membri della zona euro. Finora questo ruolo si è fatto faticosamente strada attraverso il programma Omt (Outright Monetary Transactions, mai attivato) e con il Quantitative easing (che ha ufficialmente un altro scopo: la stabilità dei prezzi), ma non è mai stato riconosciuto.
Negli anni bui della crisi del debito sovrano (2011-2012), le banche hanno di fatto sopperito all’assenza della banca centrale quale prestatore di ultima istanza dei governi. Se limitiamo la capacità delle banche di svolgere questo compito, imponendo un limite alla quantità di titoli pubblici detenibili, bisogna assegnarlo alla banca centrale, rimuovendo dallo Statuto della Bce il divieto di finanziamento diretto del settore pubblico.
Angelo Baglioni