La biografia di Jean-clément Martin edita da Salerno riporta alle giuste proporzioni la figura del più noto leader giacobino. Venne usato come capro espiatorio da coloro che lo eliminarono ma erano stati a lungo suoi complici nel Terrore
Cinque anni fa, nel 2013, in Francia si pensò di ricostruire la testa di Robespierre come era davvero. Ma, quando il lavoro fu ultimato, all’autore della «maschera» fu mosso il rimprovero di aver raffigurato l’«incorruttibile» con «uno sguardo arcigno», una «carnagione butterata» e un «cranio eccessivamente grande». Con l’intenzione appena dissimulata, secondo gli accusatori, di «disprezzare la Rivoluzione», non solo quella del 1789, «ma anche tutte le altre, trascorse e a venire». Un «episodio ai limiti del grottesco» lo definisce Jean-clément Martin in Robespierre, che la Salerno si accinge a pubblicare nell’eccellente traduzione di Alessandra Manzi. Del resto è più di un secolo che la città natale di Robespierre ha annunciato la costruzione di un museo dedicato al principale artefice della Rivoluzione francese. Museo di cui, però, la prudenza per decenni ha suggerito il perenne rinvio. Persino della posa della prima pietra.
Sembra che, almeno per quel che riguarda Robespierre, «la Rivoluzione non sia ancora terminata». Non si capisce perché, si interroga Martin, si possa tranquillamente discutere «della violenza di Marat, della venalità di Danton o della frivolezza della regina Maria Antonietta», ma, non appena si chiama in causa Robespierre, «subito la sensibilità nazionale viene scossa». I suoi ammiratori non sono nemmeno disponibili ad ammettere che avesse la pelle rovinata. Nel contempo, sulle sue spalle viene addossato — dai detrattori — il pesantissimo fardello dell’intera stagione del Terrore. Tutto ciò è stato frutto dell’astuzia di Bertrand Barère de Vieuzac e di Jean-lambert Tallien, i quali, dopo averlo fiancheggiato e spesso scavalcato nei giorni più sanguinosi, ordirono poi contro di lui la cospirazione del Termidoro (luglio) 1794, e lo mandarono a morte assieme ad altri 71 «robespierristi». Furono Barère e Tallien ad annunciare che il Paese — in quel momento e per merito loro — si era sbarazzato del «tiranno» e poteva finalmente uscire dalla dittatura. A Barère, a Tallien e ai loro sodali è «brillantemente riuscito», scrive Martin, «il gioco di prestigio di far dimenticare le loro specifiche responsabilità nel Terrore, nonché gli stretti rapporti che avevano avuto a lungo con lo stesso Robespierre».
Tali circostanze colpirono già nel 1824 i fratelli Michaud, che diedero alle stampe la Biographie universelle, un’opera decisamente ostile alla Rivoluzione, in cui si spiegava però come non si dovesse cedere alla tentazione di immaginare che Robespierre fosse stato «l’autore di tutti i crimini» addebitatigli. Molte di tali nefandezze Robespierre le aveva condivise con alcuni di quelli che «dopo aver contribuito a rovesciarlo, si sono presentati, ancora imbrattati del sangue delle sue spoglie, come i difensori della giustizia e dell’umanità». La verità, riconoscevano già due secoli fa i fratelli Michaud, è che — «similmente a quegli animali impuri che alcuni popoli dell’antichità caricavano delle nequizie di una nazione intera» — Robespierre è stato ingiustamente ritenuto, dopo la sua decapitazione, responsabile non soltanto dei crimini perpetrati con la correità dei componenti del Comitato di salute pubblica, ma «persino di quelli commessi dai suoi nemici». Tutto questo Martin lo ha ben chiaro. Il comandamento a cui ha deciso di obbedire è stato, di conseguenza, quello di sottrarsi alla disputa tra ammiratori e denigratori del rivoluzionario francese. E di esaudire la richiesta che fu di Marc Bloch: «Robespierristi, anti-robespierristi vi supplico con umiltà, limitatevi a dirci chi fu Robespierre!».
Per riuscire così a rispondere ad una fondamentale e ineludibile domanda: come è mai possibile che un uomo la cui esistenza si riduceva a pochissimo, che «visse senza denaro», che «non disponeva di relazioni importanti», che «mai ottenne poteri eccezionali», sia riuscito a conquistare un ruolo tanto cruciale. Il fine è quello di comprendere «come e perché gli elementi della sua breve vita abbiano potuto favorire la costruzione di quella mostruosa impalcatura che lo ha seppellito e al tempo stesso reso immortale». Cosa che, fa notare Martin «non ha invece avuto luogo per nessun altro dei suoi contemporanei, neppure per quelli che gli furono vicini, fossero amici o avversari».
Il saggio è molto accurato e ricco di notazioni intelligenti nel descrivere la «carriera rivoluzionaria» di Robespierre. Ma di ancor maggiore interesse è la parte del libro che prende in esame la fase iniziale della sua vita. Non ha alcun senso — scrive l’autore — far risalire il suo carattere all’infanzia e giovinezza. È sbagliato fissarsi, come Max Gallo, sulla «solitudine» infantile del rivoluzionario. È vero: Maximilien Robespierre nacque a metà Settecento (1758) da un matrimonio contrastato; fu orfano di madre a sei anni e poco dopo venne abbandonato dal padre; rimase solo e poi fu un povero studente a pensione, rinchiuso in un collegio di Parigi; quindi fu «un avvocato che vivacchiava in una provincia poco accogliente». Ma, fa notare Martin, anche Napoleone Bonaparte fu orfano di padre, anche Georges Danton e Jeanjacques Rousseau ebbero un’infanzia travagliata, anche il padre dello stesso Rousseau e quello di Jean-paul Marat si dileguarono quando i loro figli erano ancora piccoli. E va ricordato che all’epoca almeno un bambino su dieci perdeva il padre o la madre nei primi dieci anni di vita. Capitò a Jacques-rené Hébert, a Jérome Pétion. Joseph Fouché il padre lo perse a dodici anni.
La Chiesa fu, in compenso, generosa con lui. Robespierre studiò nel collegio religioso di Arras grazie ad una borsa di studio dell’abbazia di Saint-vaast assegnata direttamente dal vescovo riformatore monsignor de Conzié. Soldi per la sua formazione ottenuti per i buoni uffici di due sue zie. La leggenda vuole che, in virtù dei suoi successi scolastici, sia stato scelto nel 1775 per pronunciare, in nome del collegio in cui studiava, un omaggio al giovane Luigi XVI. Ci sono dipinti che lo raffigurano inginocchiato sotto la pioggia ai piedi della carrozza del re. Ma si tratta appunto di una voce tramandata. Il suo più recente biografo, Hervé Leuwers, non ha trovato tracce archivistiche che garantiscano l’autenticità dell’aneddoto. Nel marzo del 1782, a 24 anni, Robespierre fu nominato giudice della corte vescovile di Arras. Precoce: il che «attesta una volta di più che egli poteva contare sulla protezione del vescovo e su una potente rete familiare», scrive Martin. E non fu affatto un «avvocato senza cause e senza successo» come più volte è stato scritto. Tra il 1782 e il 1789 patrocinò in media dai 12 ai 24 procedimenti (uno o due al mese) davanti al Consiglio d’artois, intervenendo in una ventina di udienze l’anno. A queste, scrive Martin, vanno aggiunte «alcune cause patrocinate presso altre giurisdizioni locali e le funzioni esercitate con l’incarico di giudice della Camera episcopale, che lo portarono ad inviare al patibolo un assassino». Esperienza che lo avrebbe «segnato profondamente».
La ricostruzione di Martin è molto scrupolosa. Si scopre che Robespierre, divenuto negli anni che precedettero la Rivoluzione direttore dell’accademia di Arras, era assai meno «irrequieto» di un Marat o di un Brissot «uniti nella denuncia dei pregiudizi nel rifiuto dei salotti, nella contestazione delle gerarchie». Che lui, a differenza di molti altri futuri rivoluzionari, frequentava i salotti e «piaceva in società». Che non fu mai affiliato alla massoneria. Che era «un cantante scadente ma un discreto ballerino». Che scrisse versi ritenuti da Henri Guillemin di «nullità poetica, ma di buona fattura». Era insomma «un giovane uomo alla moda». Lo studioso affronta poi il tema, più volte analizzato, della «castità insolita, addirittura inquietante» di Robespierre, il quale oltretutto aveva fin da bambino «un’autentica passione per il ricamo».
L’epoca, fa notare l’autore, era certamente segnata «dagli appetiti sessuali di un Mirabeau o di un de Sade, o anche di Danton, ma la libertà di costumi non era in generale diffusa». Marat, confessò di non aver avuto rapporti sessuali prima di aver compiuto i 21 anni. Carnot, fallito nell’intento di sposare una ragazza di Digione corteggiata a lungo, si sposò a 38 anni. L’astinenza «non era poi così eccezionale in un tempo in cui bisognava essere sistemati per costruire una famiglia e le statistiche ci ricordano che l’età media di un uomo al matrimonio era attorno ai 27 anni».
E il sangue versato nella fase conclusiva della Rivoluzione? Dopo anni di ricerche, scrive lo storico, non si può che giungere ad un’unica conclusione: è sbagliato indicare Robespierre come il solo responsabile della violenza rivoluzionaria dal momento che, al di là delle testimonianze interessate, «niente negli archivi come nella memorialistica, permette di affermarlo». Fu senza dubbio «tra coloro che inventarono la rivoluzione», ma lo fece «come tutti senza esserne pienamente cosciente, il più delle volte senza dominarne gli sviluppi e ancor meno le conseguenze». La sua peculiarità consiste nel fatto di esser divenuto — come si diceva — un capro espiatorio, e soprattutto di essere servito a dare una spiegazione «della svolta più significativa della rivoluzione».
In questo non è del tutto solo. I girondini e, «anche se a minor titolo», gli hebertisti (gli «esagerati», seguaci di Jacques-rené Hébert), oppure Georges Danton, ma soprattutto Jean-baptiste Carrier «che raggiunse Robespierre nell’obbrobrio», sono stati «tutti gettati in pasto alle belve quando l’urto dei partiti e delle fazioni lo richiese». Robespierre «subì però la cosa nel momento più difficile, fu subito confuso con un sistema, quello del Terrore, inventato per l’occasione» e, «tramite una propaganda spudorata», lo si rese «colpevole delle peggiori atrocità». Certo, riconosce lo studioso, «la sua personalità vi si prestava». L’uomo privato «si era dissolto in un astratto spazio pubblico, quello delle tribune e dei discorsi». Non era stato, a dire il vero, un «cospiratore e un manipolatore» come Mirabeau, né un leader d’opinione come Brissot e non aveva «nessuno dei tratti eccessivi di Danton»; non aveva neppure la «capacità politica» di Barère, Vadier, Carnot o Fouché, tutti disponibili al compromesso e «pronti, all’occorrenza, a farsi dimenticare». Insomma il 9 Termidoro «la corona di spine non gli venne posta sul capo a caso». Molto più di altri «aveva assunto un atteggiamento sacrificale, raccoglieva consensi, faceva temere di puntare a una magistratura suprema», ma «non disponeva di una precisa linea politica». Sapremo mai, si domanda Martin, quali furono davvero le sue intenzioni in quei quattro anni di rivoluzione? «Sicuramente no», risponde lo storico. No, dal momento che «non è affatto sicuro che avesse una chiara idea delle cose». Ma, aggiunge, non è che i suoi amici, poi divenuti suoi avversari, ne avessero una migliore. Così, la manovra che scatenarono contro di lui sfuggì loro di mano e provocò quell’onda d’urto che rafforzò e finì per fissare l’immagine di Robespierre, dimostrando una volta di più due cose fondamentali. La prima è che spesso (quasi sempre) «gli uomini non hanno alcuna idea della storia che stanno producendo». La seconda: quanto sia inutile oltreché falso attribuire a un individuo soltanto chiunque sia — Robespierre in questo caso — «un ruolo eccezionale».
Nei giorni che portarono alla destituzione e alla decapitazione del principale protagonista della Rivoluzione francese, le cose, secondo Martin, furono molto più banali di quanto si creda. Non ci fu «enigma, né trascendenza, né abominio demoniaco»; solo «giochi politici e politiche urgenze, rivalità tra uomini e drammatiche difficoltà di uno stato in guerra». Ci fu soprattutto «la tradizionale alternanza di momenti di forza e momenti di debolezza che scandiscono la vita dei grandi protagonisti della storia». Ne vien fuori una ricostruzione assai più convincente di quelle tradizionali. Siano state esse simpatizzanti o grondanti ostilità nei confronti di Robespierre.
Vita privata Il membro di maggior spicco del Comitato di salute pubblica si distingueva per la sua insolita castità ed era appassionato di ricamo. (Dal “Corriere della Sera”, 20 marzo 2018)
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