Il mito di Lorenzo il Magnifico brilla immutato. Nessuno come lui incarna meglio l’immaginario di un Rinascimento quotidiano luminoso e ricco, ma, al tempo stesso, inquieto, torbido e impudente. Dietro lo splendore, tirannico. Tra questi due estremi bascula la sua personalità che, per ventitré anni, dal 1469 al 1492, data della sua morte, governò Firenze: città, come scrisse Francesco Guicciardini, potente «più per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ danari, che per grandezza di dominio».
L‘ascesa al potere di Lorenzo de’ Medici non fu frutto di sorprese, ma spinta dalla natura delle cose. Assunse il comando perché erede del clan più potente della città che, di fatto, a partire dal nonno Cosimo, governava alterando quotidianamente i meccanismi tradizionali della vita politica, in una sorta, come è stato detto, di costante colpo di Stato. La linea seguita fu infatti di spicconare le basi consolidate della Repubblica, fondando la propria azione sulla solidarietà di gruppi sempre più folti di «gente nova» — uomini d’affari, negozianti, cambiatori, imprenditori della lana eccetera — che, affine ai Medici, formava una clientela agguerrita e fedele, pronta a crescere sotto la loro ombra.
Essi seppero muoversi miscelando sapientemente spregiudicatezza e diplomazia, soprattutto grazie alla potenza di fuoco messa a disposizione dal loro core business, intorno cui si cesella lo strapotere familiare interno e internazionale: la holding bancaria, una delle prime della storia, idra dalle tante teste, che andava da Roma a Milano, da Napoli a Venezia e che raggiunse, con le sue spire, la fiera di Ginevra, le città fiamminghe, l’europa intera fino a Londra. Potenza senza pari, capace di condizionare, con il suo impatto finanziario, politiche, coalizioni, matrimoni. Strumento efficace, di cui Lorenzo si servì senza scrupoli per cucire la rete della sua azione politica e stabilizzarla, ma pure il più fragile: tanto che fu lui, a causa della politica dissennata di prestiti e fuoriuscite indiscriminate di danaro, a spingere la banca verso il fallimento.
Due soli giorni dopo la morte del padre Pietro il Gottoso, avvenuta il 2 dicembre 1469, Lorenzo, come nota nei Ricordi, viene incalzato dal suo entourage ad assumere il controllo della città. Lo abbiamo detto: era il percorso naturale, per scivolamento, da un Medici a un altro. Però colpiscono le sue considerazioni: la giovane età lo rende titubante — manca poco ai ventuno anni — come l’inesperienza. Tuttavia accetta l’onere, per un motivo ben chiaro: la paura, di essere colpito negli interessi, suoi e familiari. E, con parole ciniche, però di un’attualità e un pragmatismo che sorprendono, giustifica così la sua scelta: «Solo per conservazione delli amici e sustanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere ricco senza lo Stato».
Si comprende insomma che valore avesse per Lorenzo, e per il mondo che lo circondava, la saldatura tra danaro e politica e che, senza l’uno, l’altra risultava impossibile da praticare, esercizio inutile e privo di senso. Affari e potere: temi centrali nella vicenda politica di Lorenzo, con un apice nei tragici giorni della congiura dei Pazzi, che per poco non gli costò la vita nell’aprile del 1478.
Lorenzo fu tiranno o principe? Su questi due punti si è giocata una lunga partita interpretativa che si dipana ancora oggi. Tiranno lo fu, di sicuro. E perseguì l’obiettivo del controllo totale della città con una strategia che finì per concentrare il potere all’interno di pochi organismi consiliari (come il Consiglio dei Settanta) che, grazie a uomini nominati da lui stesso, controllarono con capillarità gli altri organi statali. Ma fu principe: la liberalità, il mecenatismo, il suo desiderio di lusso, l’attenzione all’arte e alla cultura, il circondarsi di alcuni dei principali intellettuali del tempo, l’essere egli stesso fine letterato si coniugarono con la sua idea che ogni cosa dovesse avere carattere di affare di Stato, dai matrimoni familiari alle questioni finanziarie, con un’azione politica di spessore, italiana ed europea.
La grandezza di Lorenzo fu tale da trasformare la Repubblica fiorentina in un regime assoluto che fu anche «opera d’arte», per diplomazia, senso politico e accortezza; mentre la sua fortuna, e la sua abilità, divennero elementi di ispirazione, nonché di ammirazio- ne, per tanti prìncipi europei, persino per il sultano d’egitto e per il Gran Turco.
In questi aspetti risiede gran parte della magnificenza di Lorenzo, che si condensa nella lucidità di aver saputo fondere la dimestichezza politica entro una cornice culturale unica. Ma l’appellativo Magnifico? Non gli fu riconosciuto dai contemporanei. Solo due secoli più tardi, nel 1784, proprio quando i Medici cessano di regnare, il nuovo granduca di Toscana, Leopoldo di Lorena, affida allo storico Angelo Fabroni una biografia su Lorenzo dove, per la prima volta, lui diventa il Magnifico. Bisogna poi aspettare il recente 1959 per sdoganare definitivamente l’appellativo, con l’opera Art et Humanisme à Florence au temps de Laurent le Magnifique dello storico dell’arte André Chastel. (Da “Il Corriere della Sera”, 10 gennaio 2019)