Fenomeno Greta: e dopo?
Il fenomeno Greta Thunberg continua a far parlare di sé e proseguono le manifestazioni dei giovani a favore dell’ambiente e contro i cambiamenti climatici. Il risveglio dei giovani nei confronti dei temi alti e dei grandi ideali, in una dimensione quasi planetaria favorita dalle nuove tecnologie e dai social media, è la notizia più bella e più importante della vicenda. Bisogna andare con la memoria al Sessantotto, alle lotte per la pace e per “cambiare il sistema”, come si diceva allora, per ricordare una mobilitazione dei giovani e manifestazioni di piazza simili a quelle delle ultime settimane.
Tuttavia, con il passare dei giorni, comincia ad affiorare l’impressione che le manifestazioni contro i cambiamenti climatici stiano diventando uno strumento solo – o soprattutto – a uso dei media, con una limitata capacità di incidere realmente. Quasi che, a opera di chi non vuole o non è interessato al cambiamento, si fosse messo in moto un meccanismo che mira a mettere la sordina, a innescare un lento assopimento e una graduale assimilazione del fenomeno, fino alla sua scomparsa.
Le manifestazioni dei giovani testimoniano inequivocabilmente che nella pubblica opinione è aumentata la consapevolezza sui rischi crescenti posti dai cambiamenti del clima. E questo è un fatto importante, positivo e cruciale.
Ma a ciò non seguono atti realmente significativi. È certamente vero che, solo per rimanere nel nostro paese, Greta è stata ricevuta dalle nostre massime istituzioni, oltre che dal Pontefice. La giovane svedese ha tenuto discorsi, ha partecipato a manifestazioni e i nostri giovani, così come la Camera dei deputati, hanno fatto sentire la loro voce. Ma coloro che detengono il vero potere di incidere sul fenomeno non si sono visti né sentiti.
Non abbiamo sentito il governo rispondere con qualche azione precisa. A parte l’improvvisato e pasticciato provvedimento “malus-bonus” sulle nuove auto, poco di concreto è stato fatto finora. Se è vero che buona parte della lotta ai cambiamenti del clima è decisa a Bruxelles, Roma è stata in quel contesto poco presente. La riduzione delle emissioni di CO2 dipende per importanti settori – dall’agricoltura ai trasporti – da azioni che il nostro esecutivo deve prendere per rispettare il target assegnato all’Italia dalla strategia europea. La quale potrebbe risentire della nuova maggioranza che si formerà dopo le elezioni del 26 maggio.
I due partiti che costituiscono la nostra coalizione di governo esprimono anche su questo tema visioni contrastanti. La Lega, in linea con la tradizione conservatrice che arriva da oltreoceano, nelle politiche climatiche vede sostanzialmente misure che danneggiano l’economia e ne ostacolano la crescita. Il M5s, suggestionato da impercorribili prospettive di felice decrescita, è percorso da pulsioni che immaginano il blocco di attività produttive e di infrastrutture per azzerarne l’impatto sull’ambiente. È da queste visioni uguali e opposte che scaturisce una sostanziale inattività sul fronte dei cambiamenti del clima.
Il silenzio di sindacati e imprenditori
Vi sono però due altri importanti attori il cui silenzio in questi giorni di mobilitazione giovanile appare assordante. Ed è quello dei rappresentati dei ceti produttivi, dell’industria e del sindacato. Quest’ultimo – come del resto un importante pezzo della sinistra – non è ancora riuscito a risolvere il nodo dell’apparente incompatibilità tra lavoro e ambiente. Nel guardarsi allo specchio, non sembra sia ancora riuscito a dirsi la verità: che la salvaguardia dell’occupazione e dell’ambiente possono (ma non necessariamente) essere incompatibili a livello micro, ma non lo sono a livello macro. Le prospettive di quella che si chiama “green economy” e la creazione di milioni di occupazioni verdi a livello mondiale ne sono testimonianza. Ma nei grandi cambiamenti vi sono settori produttivi che si ridimensionano e altri che nascono e prosperano.
Anche dai rappresentanti dell’imprenditoria ci si sarebbe aspettati qualcosa di più. Se sono stati capaci di scendere in piazza per le infrastrutture in quanto veicolo di crescita, viene da domandarsi come sia possibile che non abbiano avvertito l’esigenza di fare altrettanto per il clima. Se a livello individuale, soprattutto alcuni grandi gruppi, hanno in maniera convinta imboccato la strada della sostenibilità riorientando in parte il loro business (nuove strutture e sedi a emissioni zero, forniture di elettricità da fonti rinnovabili, adozione di nuove tecnologie pulite e così via), non pare ancora essere presente nel tessuto profondo di chi fa imprenditoria la convinzione che sviluppo e crescita fanno rima con qualità dell’ambiente. Si ha l’impressione che tuttora si creda che sviluppo sostenibile è un ossimoro. E se è vero che l’imprenditore è tale perché più bravo e più veloce ad annusare l’aria, a guardare oltre, si deve concludere che questa cultura ancora non appartiene alle nostre categorie produttive, né nell’industria né nella finanza. La scienza, almeno in questo caso, pare essere più avanti di tutti.
Sono questi attori che hanno il compito di togliere all’uomo della strada il timore che la lotta per il clima significhi il rischio di perdita del proprio lavoro, del proprio stipendio o della propria pensione e, con essi, dei propri privilegi e delle proprie comodità. Sono questi attori che hanno il compito di convincere il cittadino comune che la lotta al cambiamento climatico può essere fonte di nuove opportunità. Per fare ciò, questi attori devono prima convincere se stessi e poi devono scendere in piazza. Accanto ai giovani.
Marzio Galeotti, da “LaVoce.it“