Un anno di governo tra riforme monche e mancate

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Allo scoccare del suo primo anno di vita, il governo Lega-5stelle presieduto da Giuseppe Conte ha all’attivo alcune riforme contenute nel “contratto” tra i due partiti, ma conta molte promesse mancate e qualche riforma realizzata solo a spizzichi e bocconi.

Cosa resta del contratto di governo

Il primo giugno 2018 nasceva dopo 90 giorni di gestazione il governo Conte, autoproclamatosi “governo del cambiamento”. A un nome ambizioso seguiva un programma altrettanto ambizioso condiviso dalle due forze della maggioranza: il contratto per il governo del cambiamento. Che riassumeva in 30 aree d’azione gli obiettivi per questa legislatura. Nonostante una partenza a rilento, alcuni dei punti programmatici sono stati in qualche misura realizzati, i più celebri dei quali sono il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (a ben vedere un reddito minimo condizionato) e “quota 100”. Rimangono però diversi aspetti da chiarire e molte promesse lasciate nel dimenticatoio, alcune di queste definite priorità assolute durante la campagna elettorale e più volte evocate agli albori del governo. Vediamone alcune, con l’aiuto degli osservatori indipendenti CheckPoint Promesse e Tutte le promesse di Piazza Pulita (La7).

Le riforme dimenticate…

Una promessa ciascuno: entrambi i vicepremier Luigi di Maio e Matteo Salvini avevano annunciato ai rispettivi elettorati la primissima azione che avrebbero intrapreso nel Consiglio dei ministri inaugurale: Salvini intendeva cancellare “le sette più antiche accise che gravano sull’economia italiana”. Di Maio prometteva invece un decreto legge nel quale al primo punto figurasse il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari. Nessuna delle due misure è stata adottata nel primo Cdm e ancora oggi di esse non v’è traccia.

Tra le riforme intese per combattere l’evasione fiscale non è visibile il cambiamento a cui il contratto di governo aspirava. Spesometro, split payment e redditometro che dovevano essere aboliti hanno subito solo lievi modifiche (alcune già previste automaticamente). Per di più, Di Maio a settembre aveva anticipato che il carcere per i grandi evasori sarebbe stato inserito nel decreto fiscale; ma la norma è ben presto divenuta un giallo che si è trasformato nell’ennesima occasione di braccio di ferro con la Lega.

Anche sul fronte della politica internazionale sembra che nulla sia stato fatto. Matteo Salvini prometteva a gran voce di voler eliminare le sanzioni Ue riguardanti gli scambi commerciali con la Russia, ma non è riuscito nel suo intento e le sanzioni sono state rinnovate il 5 luglio 2018 dal Consiglio europeo all’unanimità, contraddicendo quanto ribadito anche nel contratto di governo. Durante la rinegoziazione del Protocollo di Dublino, fortemente caldeggiata da Di Maio, il governo non ha partecipato attivamente alle discussioni parlamentari e anche questa riforma si è conclusa con un nulla di fatto, sotto la pressione del gruppo di Visegrád. Con i nuovi numeri nel Parlamento europeo, sarà interessante appurare se il governo riuscirà a portare avanti gli obiettivi per ora rimasti disattesi.

… e quelle appena abbozzate

Esiste poi un insieme di riforme la cui realizzazione resta per adesso frammentaria. Non era possibile d’altronde – sosterrebbero i principali “azionisti” dell’esecutivo – attuare tutti i punti in un solo anno. La flat tax al 15 per cento, promessa chiave della campagna elettorale leghista e confluita poi nel contratto di governo, è stata introdotta soltanto per le partite Iva con ricavi inferiori a 65mila euro annui; manca all’appello il regime piatto per tutte le altre imprese e partite Iva e restano fuori anche le persone fisiche. Inoltre, il buon funzionamento del reddito di cittadinanza presuppone una riforma efficace dei centri per l’impiego, le cui condizioni di salute restano critiche allo stato attuale. Di Maio aveva previsto l’avvio della loro attività contestualmente all’erogazione del sussidio (marzo-aprile), ma la scadenza evidentemente non è stata rispettata.

Sul tema dei rimpatri degli immigrati irregolari, riecheggiano ancora oggi le parole roboanti di Salvini in campagna elettorale: “Mi dia due settimane da ministro dell’Interno e ne espello cento al giorno”. Ma il vicepremier aveva fatto i conti senza l’oste: secondo i numeri del Viminale, i rimpatri effettuati dall’insediamento del governo fino al 23 aprile scorso sono stati 5.872, con una media di 18 al giorno, perfettamente in linea con il governo precedente. Per giunta, nessun nuovo accordo è stato stipulato con i paesi di origine dei migranti.

Il dossier infrastrutture è stato particolarmente indigesto in questo primo anno di governo, specialmente per i Cinquestelle. A parte i dossier spinosi Ilva e Tap, dopo mesi di rinvii il destino della Tav è passato nelle mani del premier Conte, ma nella pratica resta tutt’ora in balia della maretta gialloverde. Il sospetto è che Salvini intenda incassare presto questo risultato facendo leva sul maggior peso acquisito alle elezioni europee. Anche le sorti di Alitalia avrebbero dovuto definirsi entro la fine del 2018, ma restano ancora molte incertezze, compresa l’incognita del coinvolgimento di Atlantia (Gruppo benetton). Per non parlare poi dei ritardi sul dl sbloccacantieri, la cui approvazione dovrebbe essere a questo punto questione di giorni.

Infine il tema autonomie: completamente silente nei primi mesi di governo, ancora oggi promette ben pochi aggiornamenti, nonostante il ministro Erika Stefani abbia di recente dichiarato che la materia sarà di nuovo all’esame di uno dei prossimi Consigli dei ministri. Un altro dividendo che il ministro dell’Interno Salvini punterà a riscuotere, forte del recente successo elettorale. Resta da capire quanto spazio il Movimento 5 stelle riuscirà a ritagliarsi da ora in poi per portare avanti la sua agenda, con un partner di governo baldanzoso che gioca costantemente in attacco.

Greta Ardito e Silvia Picalarga, da “LaVoce.it”

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