Perché l’intervento della Fed
Cento miliardi di dollari al giorno fino a giovedì 10 ottobre. E poi ancora due operazioni con scadenza a 14 giorni da 60 miliardi ciascuna. A tanto sono arrivate le misure che la Federal Reserve ha comunicato dopo gli interventi compiuti la scorsa settimana per calmare le tensioni che si sono manifestate sul mercato dei repurchase agreement (repo). Tensioni così rilevanti che martedì 16 settembre hanno portato i tassi overnight su queste operazioni fino al 5,25 per cento (con punte del 9 per cento), contagiando anche il mercato dei federal funds (Ff), il cui tasso di riferimento Effr è utilizzato per la conduzione della politica monetaria. Il 16 settembre, per la prima volta dal 2008, Effr aveva superato la banda di riferimento, portandosi al 2,30 per cento.
I repo, analoghi ai nostri pronti contro termine, sono operazioni nelle quali due parti si scambiano denaro verso titoli con l’impegno di riscambiarseli a una precisa scadenza, che può andare da un giorno (overnight) a qualche mese. Le transazioni, in media per migliaia di miliardi di dollari al giorno, avvengono esclusivamente all’ingrosso tra i grandi operatori (banche, primary dealers, hedge funds, money market funds, grandi imprese), che le utilizzano per rifinanziare gli investimenti in titoli o per impieghi della liquidità. Normalmente ci si aspetta che il tasso sui repo sia uguale o inferiore a quello sui federal funds. Infatti, mentre le operazioni sul mercato dei Ff non sono garantite da alcun asset, ma si basano sulla fiducia nella solidità della controparte, i repo avvengono con la garanzia che se il debitore non restituisce il denaro, ci si può rivalere trattenendo l’asset dato in garanzia.I motivi contingenti e strutturali
Se il tasso sui repo è più che doppio rispetto a quello dei Ff è evidente che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe. Cosa è andato storto la scorsa settimana?
Zoltan Pozsar, analista e managing director di Credit Suisse, attraverso le ultime uscite del suo Global Money Notes, ha descritto in modo dettagliato e ricco di dati una serie di fattori di rischio che si accumulano da alcuni mesi.
Fattori strutturali, come la riduzione del bilancio della Fed, l’incremento del deficit federale, la maggiore liquidità che dev’essere detenuta dalle banche per soddisfare i requisiti di Basilea III, limitano la liquidità effettivamente disponibile sul mercato.
Fattori contingenti, legati all’inversione dei tassi di rendimento (incremento delle operazioni di reverse repo con controparti estere, incremento degli inventari dei primary dealers), drenano liquidità dal mercato e aumentano i titoli in portafoglio degli operatori, facendo crescere di conseguenza l’esigenza di rifinanziamento giornaliero sul mercato dei repo.
In questo contesto, anche modesti impegni di liquidità come quelli della scorsa settimana, legati al pagamento delle imposte societarie e alla sottoscrizione di nuove emissioni di titoli di stato, sono ormai sufficienti per mandare in tilt il mercato monetario.
La Fed è dovuta quindi intervenire, per la prima volta dal 2008, fornendo ai primary dealers la liquidità che non riuscivano a ottenere a tassi “normali” sul mercato. Ed è proprio il ricordo del 2008 e del “run on repo” che ha propagato la crisi all’intero sistema finanziario, che ha fatto drizzare le antenne anche a importanti economisti.
Esiste però una fondamentale differenza che porta a considerare prematuro il parallelo. Nel 2008 la fuga dai repo avvenne perché non vi era più fiducia sulla effettiva valutazione dei collaterali, dei titoli strutturati ipotecari, che venivano utilizzati. Oggi invece ci sono fattori legati al disallineamento tra la quantità di titoli da rifinanziare e la liquidità effettivamente disponibile.
Un intervento di immissione di liquidità da parte della banca centrale può quindi essere sufficiente a rispristinare il corretto funzionamento del mercato ed evitare che tassi troppo elevati spingano verso la svendita dei titoli in portafoglio, determinando, questa volta sì, la loro caduta di valore e una retroazione negativa sulla valorizzazione dei collaterali utilizzati nei repo. Il recente andamento dei tassi conferma come l’intervento, anche se per importi sempre più alti, sia per il momento risolutivo per superare il collo di bottiglia determinato dal pagamento delle imposte, emissioni di titoli di stato ed esigenze di window dressing di fine trimestre.
Ma se la soluzione tampone non sarà resa strutturale, il collo di bottiglia di fine anno, che si annuncia ancora più importante, potrebbe richiedere nuovi interventi, per importi maggiori.
Nell’ambito delle soluzioni strutturali, secondo Pozsar, una semplice immissione permanente di liquidità (che sia un mini-Quantitative easing o l’avvio di una nuova facility permanente per operazioni di repo) può non esser sufficiente fino a quando non è risolta l’inversione dei tassi d’interesse, che agisce come un buco nero risucchiando la liquidità immessa nel sistema. Con tassi d’interesse a breve maggiori di quelli a lungo, le grandi banche internazionali e le banche centrali estere, per i loro investimenti in dollari, trovano più conveniente utilizzare la linea illimitata di reverse repo (che funziona assorbendo liquidità e immettendo sul mercato Titoli di Stato) della FED piuttosto che titoli a medio e lungo termine. A tale scopo il taglio dei tassi dovrebbe esser molto più aggressivo (altri 50/75 punti base) per riportare la curva a una conformazione normale.
La stagione dell’espansione monetaria, non ancora completamente finita, potrebbe avere un nuovo forte impulso anche dall’altra parte dell’oceano.
Francesco Lenzi, da “LaVoce.it”