Riverside Park e, in tempi normali, gli ci vuole solo una breve passeggiata per arrivare al suo ufficio, nel campus della Columbia University. «In primavera la passeggiata nel parco è bellissima. Ci sono i narcisi, tanti altri fiori e alberi fioriti, soprattutto meli selvatici e ciliegi. È il mio periodo preferito, ma in questi giorni c’è solo un inquietante silenzio, punteggiato, di tanto in tanto, dalla sirena di un’ambulanza». Settantasette anni, nato a Gary, Indiana, madre insegnante e padre assicuratore, il premio Nobel per l’economia che ha lavorato al fianco prima di Bill Clinton e poi di Barack Obama dice di continuare ad avere «giornate febbrili» anche se non esce quasi mai di casa. «Faccio lezione e partecipo a seminari online. Parlo con tanti amici sparsi per il mondo e anche loro chiusi in casa. Cerco di finire un libro sull’economia delle disuguaglianze e alcuni articoli teorici».
Facciamo un passo indietro, ovviamente con il senno di poi. Se lei avesse avuto il potere di prendere decisioni, cosa avrebbe fatto e quando lo avrebbe fatto?
«Avremmo dovuto agire più rapidamente. Negli Stati Uniti avremmo dovuto iniziare molto prima le pratiche di distanziamento, così come avremmo dovuto garantire la produzione di test, dispositivi di protezione, apparecchi per la ventilazione. Quello che invece ha fatto, anzi non ha fatto, l’amministrazione Trump è imperdonabile. È arrivata a negare che ci fosse un problema anche di fronte all’evidenza, incoraggiando Fox News a diffondere grave disinformazione. Il presidente avrebbe dovuto riunire un consiglio di saggi – scienziati, epidemiologi, esperti di salute pubblica, economisti – per decidere una strategia, invece di denigrare sistematicamente la scienza. Tuttavia il fallimento di Trump non sorprende: per tre anni ha cercato di tagliare le spese per la ricerca, ha ridotto i fondi dell’agenzia governativa per la prevenzione delle malattie, ha smantellato il programma di gestione delle pandemie. I repubblicani hanno negato i sussidi di malattia e così molti lavoratori a basso reddito, contagiati, devono andare a lavorare per sopravvivere. Diffondono la malattia perché non possono permettersi di stare a casa. Solo dopo una dura lotta gli ospedali hanno ricevuto rifornimenti, anche se probabilmente in quantitativi insufficienti. Il programma federale per aiutare le piccole imprese è un caos: il denaro va a chi ha già rapporti privilegiati con le banche. Questi interventi avrebbero dovuto fermare la perdita di posti di lavoro. Non ha funzionato: nelle ultime settimane i disoccupati sono saliti a 24 milioni. La speranza di una rapida conclusione dell’emergenza è svanita e la domanda adesso è: quanto andranno male le cose per il resto dell’anno e per il 2021?».
E che risposta si è dato? L’economia – ma anche altre scienze sociali – pretende di disegnare scenari del futuro. Si basa sui dati del passato – quantitativi e qualitativi – per ipotizzare cosa accadrà, ma spesso le previsioni si rivelano errate. Quanto sono in grado le scienze sociali di prevedere e influenzare il futuro?
«Possiamo fare ragionevoli congetture, non molto di più. Tuttavia sappiamo molto sul comportamento degli individui, del sistema produttivo e in generale del sistema economico. Su queste basi possiamo dire qualcosa su quanto accadrà. Per esempio sappiamo che se c’è una recessione prolungata il settore finanziario avrà seri problemi, perché le aziende e le famiglie non potranno pagare i debiti. Sappiamo che se i bilanci delle aziende saltano queste ridurranno gli investimenti e lo stesso vale per le famiglie che ridurranno il loro consumi. Insomma, anche se le origini di questa crisi sono molto diverse da quella del 2008, questo disastro produrrà effetti simili, a meno che non interveniamo in modo appropriato».
I modelli matematici, in economia e in altre scienze sociali, comportano il rischio di generare false sicurezze. Ne stiamo facendo l’esperienza durante questa crisi: anche se basate su modelli all’apparenza rigorosi molte previsioni sull’andamento dell’epidemia si sono rivelate sbagliate. Qual è la sua opinione su un tema, certamente tecnico e teorico ma che diventa sensibile quando applicato all’economia e soprattutto alla salute?
«La matematica è un linguaggio che ci permette di vedere relazioni complesse – o a volte relazioni semplici ma estremamente sottili – con una chiarezza che altrimenti non avremmo. I buoni modelli matematici tengono conto dell’incertezza. I problemi non dipendono dalla matematica, ma da chi la usa in modo sbagliato. Pensi al modello neoliberale – piuttosto semplicistico – o anche ad altri modelli apparentemente più sofisticati come il Dsge ( dynamic stochastic general equilibrium), usati da molti economisti e da alcune banche centrali. La questione non consiste nella loro formulazione matematica ma nelle ipotesi assurde che essi includono. E nel fatto che alcuni decisori politici prendono questi modelli più seriamente di quanto non meritino. Come ho detto, la matematica ci serve a esplorare questioni di cui altrimenti potremmo non accorgerci.
L’individuazione di tali questioni ci aiuta a valutare il realismo e il grado di validità del modello. Lo schema neoclassico previde, per esempio, che gli scambi fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo avrebbero ridotto le retribuzioni dei lavoratori non specializzati nelle nazioni sviluppate. Era un avvertimento di cui avremmo dovuto tenere conto. D’altro canto il modello Dsge affermava che non potessero verificarsi bolle finanziarie, ma chiunque avesse letto i libri di storia sapeva che bolle finanziarie ve n’erano state, eccome. Insomma, il modello aveva implicazioni che erano evidentemente sbagliate e questo avrebbe dovuto costituire un monito a non prenderlo seriamente».
La matematica ci serve a esplorare questioni di cui altrimenti potremmo non accorgerci. L’individuazione di tali questioni ci aiuta a valutare il realismo e il grado di validità dei modelli
Da questa epidemia possiamo imparare l’importanza della scienza, il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive L’obiettivo deve essere la cooperazione globale.
Gianrico Carofiglio, da “ROBINSON” di ‘La Repubblica’