Toscana colonne d’Ercole

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di Stefano Massini

C’è un angolo dell’Italia in cui il tempo diventa un fattore concreto, tangibile, lo puoi vedere e toccare con mano. Passeggi fra tombe etrusche, ti incammini fra le rovine di un monastero dell’anno mille, scopri fra gli arbusti un’acropoli romana, e da lassù osservi il mare da un torrione medievale. Dopodiché, immerso in tanto stupore, ti chiedi se è vero.
Baratti — questo il nome — è un luogo in cui la storia, intesa come incalzare degli anni e dei secoli, ti si mostra sul territorio come un sovrapporsi di stimmate, e percepisci d’un tratto come siamo parte di un ciclo continuo, che ha lasciato, lascia e lascerà impronte sul paesaggio e sulla grande scena del mondo. Insomma, parliamo sì di una meta marina, ma in cui il tran- tran fra sdraio e bagnasciuga è davvero il minore dei guizzi, dischiudendosi le porte per ben altra esperienza. Sarà per questo che l’ho sempre amato molto? Credo di sì. In provincia di Livorno, nel territorio comunale di Piombino, il golfo di Baratti è un luogo dotato di un’energia propria, capace di sorprendere e al tempo stesso perfino di inquietare, che poi è il connubio sostanziale da cui discende l’innamoramento.
Già, perché noi in genere non ci innamoriamo di ciò che è risolto, di ciò che è perfettamente chiaro, bensì di un enigma, di un’incognita, di un rebus che chiede di essere risolto, e in quest’impresa dona significato al tempo di entrambi. Avviene così anche per i luoghi. E il misterioso, selvatico golfo di Baratti ne incarna ai miei occhi l’esempio: non riesci a definirlo, non riesci a circoscriverlo in un’unica definizione. Chi di voi vi si vorrà addentrare, non troverà niente di tutto ciò che contraddistingue gli abituali lidi turistici. Niente alberghi di sette piani, niente stabilimenti balneari con piscine di design, nessuna sfilza di bar, bazar e negozietti multicolor con materassini a forma di coccodrillo o di delfino. Dimenticatevi tutto. Il golfo di Baratti ha la sua forza nell’essere fondamentalmente un’area archeologica che si spinge fino al mare, per cui una tutela severissima proibisce qualsiasi azzardo cementizio, col risultato che la natura spadroneggia dovunque, fiera e incontrastata, ammettendo giusto l’intrusione di un’unica strada fra i campi e l’arenile, a segnare la linea curva del golfo fino al pugno di casette che punteggiano il porticciolo.
Basta, non c’è altro, tutto qui: una strada col grano a sinistra e una spianata d’erba e cespugli a destra, che in declivio scende a una spiaggia lunga, generosa e rossastra, densa d’ematite ( nei secoli dei secoli ci lavoravano il ferro), e a pochi passi un mare da copertine. Campeggi e strutture ricettive? Le trovi solo nell’interno, in quella ( peraltro bellissima) campagna in cui i pini marittimi se la giocano con gli olivi e i vigneti, in un’alternanza di colline e sbalzi che ora nascondono e ora rivelano il mare. E poi, memorabile, in una piazzetta a pochi centimetri ( non metri, insisto: centimetri) dalla spiaggia, quando meno te lo aspetteresti, ecco che ti si palesa d’un tratto la sagoma incredibile d’un chiosco di legno e ferro, in puro stile retrò, dove ti servono lasagnette di mare e schiacciata col polpo, da gustarsi magari al tramonto su tavolini che guardano il mare. Tutto questo, però, lo ripeto, avviene in un contesto in cui l’elemento balneare è in fin dei conti pleonastico. A segnare l’eccezionalità — e l’eccellenza — del luogo è la spudoratezza con cui la storia si denuda nei paraggi, assortendo in una manciata di chilometri un autentico catalogo di epoche e vestigia. Al livello del mare si stende un’intera necropoli etrusca di 2700 anni fa, prodiga di tempietti, tombe a tumulo, a edicola, a sarcofago… giuro che è una visita sorprendente.
E tuttavia non basta, perché se segui il sentiero fra i lecci ti trovi davanti a qualcosa di ancor più inatteso: una parete di roccia scavata in grotte e caverne adibite a tombe, molte delle quali foriere di manufatti in perfetto stato di conservazione. Alzi il viso, e lassù, a strapiombo sul mare, c’è la rocca di Populonia che dai fasti antichi passò a roccaforte dopo le razzie dei saraceni, e oggi ti accoglie come un set cinematografico in cui si stia girando La spada nella roccia. Capite perché parlo di un’esperienza che va ben oltre il turismo da ombrellone? A chiudere il cerchio ci metterei anche l’imprescindibile approdo oltre il promontorio, dove si staglia Piombino con le sue cattedrali industriali ( vi ho scattato centinaia di fotografie) e un prezioso centro storico culminante in piazza Bovio, terrazza urbana allungata sul mare a puntare l’Elba, come la prua di un veliero. Secoli e secoli fa qui si facevano affari d’oro con la lavorazione e il commercio del ferro, e quel passato rivive e riecheggia, da ogni angolo e ogni scorcio. Memorie, orme, impronte fra cui rielaborare un disegno. Formidabile, a mio vedere. ( da “Robinson”, di ‘Repubblica‘, giugno 2020)

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