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Il contributo fiscale del lavoro domestico

Considerato – a ragione – un settore con contribuzione piuttosto bassa, il lavoro domestico contribuisce, tuttavia, al gettito fiscale e contributivo dello stato.
Secondo un’anticipazione del Rapporto annuale sul lavoro domestico 2020, elaborato dall’Osservatorio Domina e in uscita a dicembre, gli 849 mila lavoratori domestici regolari censiti dall’Inps nel 2019 portano un gettito Irpef di 463 milioni di euro e contributi previdenziali e assistenziali per 995 milioni, per un totale di 1,5 miliardi di euro nelle casse dello stato.
Tuttavia, è necessario fare due precisazioni. Innanzitutto, la stima Irpef e delle addizionali locali è teorica, in quanto presuppone che tutti i lavoratori presentino la dichiarazione dei redditi. E non è così scontato, dato che il datore di lavoro non è sostituto d’imposta e quindi l’onere è tutto a carico del lavoratore.
In secondo luogo, vanno considerati gli effetti indiretti legati alla componente deducibile Irpef del datore di lavoro e al bonus Dl 3/2020 (ex “bonus Renzi”, dal mese di luglio 2020 pari a 100 euro al mese), per cui lo stato dovrebbe “restituire” circa 433 milioni, riducendo il saldo delle entrate fiscali totali a un miliardo di euro.
Inoltre, la quota rappresenta solo una piccola parte delle entrate potenziali, considerato che il lavoro domestico è il settore con il più alto tasso di irregolarità (58,3 per cento). Un valore così alto dipende da diversi fattori socio-culturali, tra cui la presenza di lavoratori extra-comunitari senza permesso di soggiorno disponibili al lavoro di assistenza e di cura. Ma, naturalmente, il lavoro “nero” non riguarda solo gli stranieri: secondo le stime dell’Osservatorio Domina, sono oltre un milione i lavoratori domestici non in regola dal punto di vista contrattuale.

Cosa cambia con la sanatoria

A causa del lockdown seguito all’emergenza Covid-19, la situazione si è ulteriormente aggravata, rendendo di fatto impossibile per i lavoratori irregolari continuare a svolgere la propria attività di cura e assistenza. Nella posizione più delicata si sono ritrovati gli stranieri senza permesso di soggiorno, che non avevano né la possibilità di lavorare né quella di rientrare in patria.
Ne è nato un dibattito che ha portato all’inserimento nel “decreto Rilancio” (decreto legge 19.5.2020 n. 34) dell’articolo 103, che riguarda proprio l’“emersione di rapporti di lavoro” in ambito agricolo e domestico.
Al termine del periodo valido per la regolarizzazione (1° giugno – 15 agosto), le domande presentate per il comma 1 (domande del datore di lavoro) sono state 207.542, di cui 177 mila nel settore domestico (85 per cento), mentre quelle per il comma 2 (domande direttamente del lavoratore) sono state 12.986, per un totale complessivo di 220.528, perfettamente in linea con le previsioni.
A partire da questi dati, l’Osservatorio Domina ha potuto stilare un bilancio tra i benefici della regolarizzazione e i costi sostenuti per effettuarla. Innanzitutto, le entrate date dal contributo forfettario richiesto per la regolarizzazione (500 euro o 130 euro a seconda della modalità di presentazione) sono pari a 105,5 milioni, contro 75,2 milioni di costi di gestione amministrativa, per un saldo positivo pari a 30,3 milioni.
Ma il vero beneficio è dato dal fatto che ogni lavoratore, una volta regolarizzato, porta nelle casse dello stato anche contributi assistenziali e previdenziali, Irpef e addizionali locali.
Da un’analisi Inps effettuata sulla regolarizzazione del 2002, l’80 per cento dei lavoratori emersi in quell’anno era ancora regolarmente occupato a distanza di cinque anni.
Considerando le attuali classi di reddito dei lavoratori per ciascun settore, possiamo stimare le entrate fiscali per i lavoratori domestici (314,2 milioni) e per i lavoratori agricoli (49,3 milioni), per un ammontare complessivo di 363,5 milioni di euro.
Anche in questo caso, va ribadito che i redditi di questi settori sono mediamente bassi, per cui molti lavoratori si trovano al di sotto della no tax area (addirittura tutti quelli del comparto agricolo). E vanno considerati gli effetti indiretti dovuti alle deduzioni e al bonus Dl 3/2020, per cui il vantaggio netto per lo stato scende a 276,4 milioni di euro annui.
Per quanto riguarda in particolare il lavoro domestico, i “nuovi” lavoratori regolari sono solo una piccola parte del bacino degli irregolari. Infatti, il problema non è solo la mancanza del permesso di soggiorno, ma i costi per le famiglie, soprattutto in questo periodo di incertezza causato dal Covid-19.
Con la regolarizzazione di 177 mila lavoratori domestici, la sanatoria ha permesso un’entrata di 0,3 miliardi, che si aggiungono agli importi fiscali dei lavoratori regolari (1,5 miliardi). Tuttavia, la mancanza di incentivi a favore delle famiglie-datori di lavoro che rendano più conveniente la gestione del lavoro domestico attraverso contratti regolari lascia all’economia informale oltre un milione di lavoratori domestici.
Se tutti costoro avessero un regolare contratto di lavoro, lo stato incasserebbe ulteriori 1,8 miliardi, portando le entrate fiscali a 3,6 miliardi.
Tirando le somme, possiamo affermare che la regolarizzazione 2020 abbia rappresentato un primo passo verso l’emersione del lavoro nero in ambito domestico (che, evidentemente, non riguarda solo gli stranieri), ma che non sia ancora sufficiente. Il principio guida dovrebbe essere quello di rendere economicamente più conveniente il lavoro regolare, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, considerando anche i benefici sociali dati dall’emersione. Per esempio, come chiedono da tempo le associazioni delle famiglie datori di lavoro, occorrono strumenti a sostegno delle famiglie, come la deducibilità delle spese per l’assistenza. Sul fronte dei lavoratori (stranieri), un incentivo alla regolarizzazione sarebbe dato dalla possibilità di “riscattare” i contributi versati in Italia anche una volta rientrati in patria, come avveniva prima della legge Bossi-Fini del 2002.

Enrico Di Pasquale (nella foto), da www.lavoce.info

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