Quando la visitò, ed era ormai un villaggio sonnecchiante sotto l’implacabile sole greco, Joseph Goebbels dichiarò di sentirsi come in una città tedesca: perché la Germania nazista era la nuova Sparta, la città dei conquistatori, capaci per secoli di preservare la loro purezza razziale, e per questo imbattibili, 6.000 cittadini che avevano dominato su 360.000 iloti. Non era la prima volta che si celebravano le virtù spartane con tale entusiasmo. Per Robespierre e i Giacobini gli Spartani erano il modello di virtù civile, quanto a senso del dovere e sacrificio di sé per il bene della collettività. Come Leonida e i Trecento, pronti a immolarsi pur di difendere la patria dal barbaro invasore. A Stalingrado, nel pieno della disfatta, anche il Feldmaresciallo
Göring non avrebbe trovato niente di meglio che rievocare lo stesso esempio. Del resto, non erano i comunisti i nuovi barbari, pronti a calare sull’Europa per distruggerla? E pazienza se a invadere erano stati i tedeschi, non i russi. «Viandante, se vai in Germania (a Sparta), di’ loro che ci hai visto combattere a Stalingrado (alle Termopili), obbedienti alla legge, per la sicurezza del nostro popolo!».
Non è che ad Atene sia andata meglio, del resto, quanto ad appropriazioni indebite e travisamenti: «I love the Greeks, oh do I love the Greeks …», disse Donald Trump un paio di anni fa. Era l’ultimo di una lunga serie di presidenti e politici americani, pronti a esaltare gli Stati Uniti come la nuova Atene, la culla della democrazia e della libertà. L’idea aveva preso forza alla fine della Seconda guerra mondiale, in funzione anti-sovietica (sempre loro, i russi, questa volta identificati con gli Spartani). In tempi più recenti è stata sfruttata per giustificare iniziative infelici.
Il paragone con Atene ritorna continuamente quando si discute della necessità di «esportare» la democrazia nel mondo. Come Atene, afferma George W. Bush, «l’America non è una potenza imperiale, è una potenza liberatrice». Mai fu scelto un esempio più maldestro se si pensa a come Atene trattava gli alleati: come delle mucche da mungere ininterrottamente, scrisse uno storico qualche anno fa, così da garantire alla città un afflusso ininterrotto di ricchezze.
Non è semplice raccontare Sparta e Atene, senza cadere negli stereotipi che si rinnovano di generazione in generazione. In Sparta e Atene. Autoritarismo e democrazia (Einaudi Stile libero) Eva Cantarella lo fa con la consueta eleganza. Il miraggio spartano e il miracolo ateniese: Sparta,
una città di cui sappiamo pochissimo, avvolta nelle nebbie di un passato grandioso — la città che resta fedele alla sua costituzione per settecento anni — ma ormai perduto. Atene, la città del miracolo, come scrisse Ernest Renan, del Partenone e della democrazia, «una cosa esistita una volta sola, mai vista prima, irripetibile dopo, con un effetto eterno». La realtà, come sempre, è più sfumata. Intanto, non è vero che a Sparta la cultura fosse disprezzata. Come a tutti i Greci, anche agli Spartani l’importanza delle parole come strumento di potere era chiara. Ma parlare bene significa andare al punto, senza perdersi come un amante incapace di controllarsi (niente di peggio per uno spartano): è lo stile laconico, l’arte di racchiudere in un giro stretto di parole «una ricchezza di pensiero». Solo la forza della propaganda ateniese è riuscita a far passare questo esercizio di controllo per una manifestazione di ignoranza. Alla quale ignoranza erano invece condannate le donne di Atene, la cui formazione era unicamente finalizzata alla preparazione al matrimonio. Non si contano neppure gli aneddoti sulle donne spartane, l’oggetto misterioso per eccellenza. Per Aristotele, addirittura, la città intera era nelle loro mani. Molto più banalmente, Sparta era l’unica città in cui anche per le donne era prevista una qualche forma di educazione, nella misura in cui venivano considerate parte integrante del progetto civico. Qualcosa di impensabile per gli altri Greci, che aveva un prezzo però: la cancellazione della dimensione privata. Non c’è spazio per legami affettivi tra madri e figli, a Sparta conta solo la città (Platone se ne sarebbe ricordato nella Repubblica».
Politicamente invece — ed è questa la tesi più interessante del libro — le due città erano molto più vicine di quanto non si pensi: entrambe impegnate in una politica di potenza, e con un’organizzazione dei poteri interni bilanciata. Si ricorda sempre la solidità di Sparta, ma anche la democrazia di Atene, il governo instabile per eccellenza, dominio di una massa volubile e ignorante, si reggeva su un sistema di contrappesi e su una macchina amministrativa capace di garantirne il funzionamento a lungo.
E per chi vuole interrogarsi sulla differenza tra le due città non resta che rivolgersi al solito Tucidide, lo storico che più di tutti ha contribuito alla creazione del mito delle due città, con il suo racconto del conflitto — la cosiddetta guerra del Peloponneso: 431-404 a. C. — che le ha divise per sempre nell’immaginario occidentale. È l’opposizione tra il movimento e la quiete. Atene, la città protesa in avanti, incapace di accontentarsi e quindi sempre pronta a osare; la città che si perderà per questo suo desiderio di andare oltre, ma che proprio a questo desiderio di andare sempre oltre deve la sua grandezza. Sparta la città che sa attendere, perché consapevole dei suoi limiti e dei limiti che ostacolano ogni iniziativa umana; la città della forza che come nessun’altra ha capito quanto siamo deboli, e che per questo raggiungerà la vittoria. Inutile chiedersi chi ha ragione, perché entrambe ci spiegano qualcosa di noi stessi. Hanno bisogno l’una dell’altra, Sparta e Atene, e noi di entrambe. È ricordata la solidità di Sparta, ma anche Atene si reggeva su contrappesi e su una macchina amministrativa efficiente.
Mauro Bonazzi, da Corriere della Sera