L’agenda fiscale del governo Draghi

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Fisco, un tema caldo

Una delle difficoltà maggiori da affrontare per il futuro governo Draghi sarà senz’altro la riforma del fisco. Dopo l’improvvisa conversione di Matteo Salvini sulla via di Bruxelles, la maggioranza parlamentare extra-large che – a quanto pare – sosterrà il nuovo governo ha infatti idee del tutto antitetiche sul fronte delle tasse. Si oscilla tra chi vorrebbe l’introduzione di una imposta personale sui patrimoni e un forte inasprimento della progressività di quella sui redditi a chi, al contrario, ancora sostiene la flat tax e il taglio netto della pressione fiscale, con buona pace della sostenibilità dei conti pubblici. Sarebbe davvero un grosso guaio se i veti incrociati in Parlamento bloccassero la riforma. Se infatti in Italia c’è una infrastruttura fondamentale che richiede urgenti interventi è proprio il fisco. Venti anni di interventi successivi e scoordinati sul sistema fiscale da parte di governi con opposte visioni del mondo hanno generato una sorta di obbrobrio giuridico ed economico.

Il governo dimissionario – il Conte 2 – aveva già manifestato l’intenzione di intervenire, in particolare sull’Irpef, stanziando qualche risorsa (8 e 7 miliardi per la precisione negli anni 2022 e dal 2023 in poi) a sostegno della riforma fiscale. Ma siccome la stragrande maggioranza di queste risorse (tra i 5 e i 6 miliardi) è in realtà destinata al finanziamento del nuovo assegno unico per i figli, ormai in fase avanzata di approvazione, non si è mai capito esattamente fino a che punto il Conte 2 avesse davvero l’intenzione di intervenire sul fisco. La sproporzione tra gli obiettivi dichiarati e la limitatezza delle risorse stanziate faceva piuttosto presagire qualche intervento marginale su aliquote e scaglioni Irpef.

Riforma del sistema tributario o della sola Irpef?

Il nuovo governo Draghi dovrà partire da qui per scegliere cosa fare. La prima questione sarà appunto decidere se limitarsi a qualche intervento sull’Irpef o tentare una riforma più generale. Il problema della prima opzione è che le risorse già a disposizione sono poche e quelle che potrebbero derivare da marginali ristrutturazioni del tributo sono anch’esse limitate.

Una più generale revisione del sistema tributario consentirebbe invece di sollevare più risorse e affrontare al tempo stesso alcuni dei suoi problemi più strutturali. Il principale è che il fisco italiano si fonda prevalentemente sulla tassazione dei redditi da lavoro; e in realtà per la forte evasione dei redditi da lavoro autonomo (evasi al 68 per cento, secondo le stime ufficiali), soprattutto sulla tassazione dei redditi da lavoro dipendente (e assimilati), che infatti costituiscono da soli l’84 per cento della base imponibile Irpef. In termini di aliquota effettiva di imposta, l’Italia è al terzo posto in Europa per la tassazione del lavoro, mentre si colloca al venticinquesimo per la tassazione dei consumi. Ciò ha effetti negativi su crescita e occupazione ed è anche preoccupante in prospettiva, visto la tendenza, comune a tutte le economie sviluppate, di riduzione della quota dei redditi da lavoro dipendente sul totale dei redditi.

Difatti le raccomandazioni della Commissione europea al paese, di cui il governo Draghi certamente terrà conto, sono per un deciso spostamento del carico fiscale dal lavoro ai consumi. Lo si potrebbe fare non solo agendo più decisamente sull’evasione dell’Iva, ma anche rivedendo e accorpandone le aliquote (soprattutto intervenendo su quella intermedia). Diversi studi mostrano che un’operazione di questo tipo, oltre a ridurre pesantemente l’onere fiscale sul lavoro, potrebbe essere realizzata senza rilevanti effetti regressivi sui contribuenti. Oltretutto, visto il periodo di crisi economica e la sospensione del Patto di stabilità, sarebbe forse possibile anche considerare forme di scambio intertemporale: una riduzione della tassazione in sede Irpef oggi, accompagnata da un incremento credibile della tassazione dei consumi in futuro, una volta che la crisi innestata dal Covid venisse superata.

La riforma dell’Irpef: base imponibile

La seconda questione riguarda invece proprio la struttura dell’Irpef, a cominciare dalla base imponibile. Il tributo non è solo fortemente evaso, ma anche molto eroso, per la decisione – assunta da più governi – di sottrarre via via redditi alla tassazione progressiva in sede Irpef e assoggettarli a tassazione sostitutiva proporzionale, oltretutto con aliquote tutte diverse tra di loro. A ciò si aggiunge una batteria vasta di agevolazioni, deduzioni e detrazioni fiscali, in continua lievitazione e spesso a vantaggio di interessi molto particolari: all’ultimo conteggio, si tratta di 171 spese fiscali riconosciute sull’Irpef. Secondo le stime ufficiali, l’insieme di queste agevolazioni riducono il gettito Irpef per almeno 40 miliardi di euro all’anno. Ovviamente, se si riuscisse a limitare la vasta area di erosione, si potrebbe recuperare gettito da investire in una riduzione delle aliquote.

Il problema è molto complesso. Per le spese fiscali, va tenuto conto che per alcune di queste, tra l’altro quelle che costano di più in termini di gettito (come le ristrutturazioni edilizie), non è immaginabile recuperare molto nel breve periodo, visto che l’impegno preso dal fisco nei confronti dei contribuenti si estende su parecchi anni. Per le altre forme di erosione, il problema è più di carattere politico, considerato il forte ruolo avuto dai governi passati nell’introdurle. Le tipologie che più meriterebbero di essere riviste riguardano infatti la tassazione degli immobili e la cosiddetta flat tax sui redditi da lavoro autonomo e impresa individuale (l’espansione del forfettario fino a 65 mila euro di fatturato) decisa dal governo giallo-verde.

Sulla tassazione degli immobili, i temi fondamentali riguardano il mantenimento della cedolare secca sugli affitti, la revisione del catasto, la decisione se reintrodurre o meno una forma di tassazione sulle abitazioni di residenza, tenendo conto che l’Italia è l’unico paese nel novero di quelli sviluppati a esentare interamente la prima casa (eccetto quella di lusso) da ogni forma di imposizione fiscale, in sede reddituale o patrimoniale.

Sulla flat tax degli autonomi, il tema è che il forfettario così espanso (copre circa il 60 per cento dei contribuenti appartenenti a queste categorie) introduce forti violazioni nell’equità orizzontale (il risparmio in termini di tasse da pagare in sede Irpef rispetto a un lavoratore dipendente è di circa 5 mila euro a 40 mila euro di reddito dichiarato, senza contare che questi contribuenti sono anche esenti da Iva e Irap) ed è anche fortemente distorsivo, spingendo i contribuenti a rimanere sotto la soglia di fatturato per godere del sistema di agevolazione.

La riforma dell’Irpef: struttura delle aliquote e grado di progressività

C’è poi il problema della progressività. L’Irpef è indubbiamente un’imposta molto progressiva e lo è diventata sempre di più nel corso degli ultimi decenni. Oggi, il 75 per cento dei contribuenti si colloca sotto il secondo scaglione (28 mila euro), ma contribuisce solo al 30 per cento del gettito dell’imposta, più o meno quanto pagano coloro che si collocano sopra l’ultimo scaglione (75 mila euro) che sono però solo il 2,5 per cento del totale dei contribuenti. Una struttura così progressiva, su una base imponibile così ridotta come quella attuale (prevalentemente i redditi da lavoro dipendente e da pensione) meriterebbe già di per sé qualche riflessione.

Ma un ulteriore problema è che la crescita dell’imposizione fiscale al crescere dell’imponibile è ottenuta come risultato di una scala di aliquote marginali molto contenute (solo cinque, con inoltre un salto di 11 punti tra il secondo e il terzo scaglione, dal 27 al 38 per cento), detrazioni decrescenti (per tipologia di lavoro e carichi familiari) con inclinazioni diverse e non sempre coincidenti con gli scaglioni e bonus Irpef, un sussidio a favore dei redditi da lavoratori dipendenti decrescente nel reddito imponibile, ora aumentato (da 80 a 100 euro) e portato (dal 2021) fino a 40 mila euro. L’effetto è una serie di “salti” nelle aliquote marginali effettive, soprattutto nella fascia bassa e media del lavoro dipendente, dove si concentrano i beneficiari del bonus Irpef. Per esempio, si calcola che l’aliquota marginale effettiva Irpef per i lavoratori dipendenti tra i 35 mila e i 40 mila euro, dove si colloca una larga quota di questi contribuenti, sia superiore al 60 per cento, con ovvi effetti distorsivi sull’offerta di lavoro.

È chiaro che questa struttura di imposizione va rivista, almeno per eliminare i salti di aliquota marginale. Le soluzioni possono essere diverse (scaglioni con detrazioni decrescenti, scaglioni con detrazioni fisse, sistema continuo alla “tedesca”, per esempio), in funzione anche del livello di trasparenza che si vuol dare al tributo. Ma pare abbastanza evidente che per ricondurre a razionalità il sistema bisognerebbe prima di tutto eliminare il bonus Irpef, un oggetto estraneo al disegno dell’imposta, recuperandolo sotto forma di revisione delle aliquote e incremento nella detrazione per lavoro dipendente. Un’azione simile può però essere costosa sul piano politico, perché è difficile costruire un sistema che possa offrire gli stessi benefici ai redditi medio bassi del bonus, a meno che non si riesca a recuperare sufficienti risorse addizionali (ampliando la base imponibile Irpef oppure aumentando il gettito di altri tributi) da consentire una forte riduzione del carico fiscale su questi contribuenti. (da www.lavoce.info)

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