La cassa integrazione “a perdere”
Nata col primo lockdown per far fronte alla crisi pandemica con il decreto “Cura Italia” (Dm n. 18 del 2020), la “cassa integrazione Covid” si caratterizza inizialmente per l’estrema facilità della concessione a qualsiasi impresa la richieda: nessuna consultazione sindacale preventiva, nessun controllo amministrativo sull’effettività del motivo della richiesta. È sostanzialmente la contropartita senza la quale il blocco dei licenziamenti sarebbe incostituzionale e, parallelamente a esso, è stata prorogata e rifinanziata più volte. Con il cosiddetto “decreto agosto” (n. 104/2020), in una situazione di apparente miglioramento della congiuntura, la possibilità di ricorrere alla “cassa-Covid” era stata prorogata, ma con l’imposizione di un contributo per il caso di utilizzo oltre le prime nove settimane senza calo di fatturato o con un calo inferiore al 20 per cento. Con l’arrivo dell’inverno e della nuova ondata epidemica, la legge finanziaria – n. 178/2020 – ha poi confermato nuovamente la “cassa-Covid”, rimuovendo del tutto il contributo a carico dell’impresa utilizzatrice.
Ora, a fine marzo scade il blocco dei licenziamenti. Il governo si trova dunque a un bivio: prorogarlo ancora una volta, necessariamente insieme alla “cassa-Covid” (perché altrimenti incostituzionale), oppure cambiare strada.
La prima opzione significa continuare a spendere fiumi di denaro per rinviare il problema, mantenendo in stand-by centinaia di migliaia di lavoratori la cui occupabilità si riduce ogni giorno che passa. Sono solo in parte lavoratori la cui attività presumibilmente riprenderà come prima, appena sarà superata la pandemia: è il caso di quelli dei settori del turismo, della ristorazione e dello spettacolo. Per l’altra parte sono invece lavoratori i cui posti di lavoro non verranno mai riattivati. Nei giorni scorsi è stato proposto di prorogare il blocco e la “cassa Covid” soltanto per questi ultimi. In Parlamento, in apertura e chiusura del dibattito sulla fiducia al governo, il presidente del Consiglio è sembrato indicare – con piena ragione – l’intendimento esattamente opposto: prorogare semmai il “pacchetto pandemia” soltanto per le attività che presumibilmente potranno ripartire, ma non per i lavoratori i cui posti di lavoro, di fatto, non esistono più e per i quali occorre subito attivare i percorsi verso la nuova occupazione, con un forte investimento sulla loro riqualificazione e riconversione professionale.
Che fare dove è certo che il lavoro non ripartirà
Se questa è la linea, occorre dunque cercare un nuovo equilibrio tra tutela dell’occupazione ed esigenza di riorganizzazione delle imprese, che il governo deve trovare rapidamente, anche a costo di qualche fatica, attraverso la negoziazione con le parti sociali.
Una soluzione può essere quella di utilizzare il flusso del denaro pubblico non tanto per tenere i lavoratori legati a posti di lavoro non più esistenti, quanto per sostenere la loro ricollocazione, consentendo lo scioglimento dei rapporti, rafforzando il trattamento economico dei licenziati, ma collegandolo strettamente alla disponibilità per il percorso necessario verso la nuova occupazione. Un’opzione, per esempio, è quella di reintrodurre – in via eccezionale e per un tempo determinato – il limite minimo di riduzione del fatturato dovuta alla crisi sanitaria, questa volta non più come motivo per l’accesso alla cassa integrazione-Covid, ma come motivo economico (oggettivo) tipizzato di licenziamento, sia individuale sia collettivo. Per questo, però, sarà necessario che tra datore di lavoro e sindacati vi sia una verifica della caduta del fatturato. La soglia di riduzione potrebbe essere quella già prevista per l’accesso alla “cassa-Covid” del decreto n. 104/2020; ma si potrebbe anche pensare a una percentuale più alta.
A tutti i lavoratori licenziati per il motivo speciale congiunturale dovrebbero essere automaticamente garantite: una integrazione economica del trattamento di disoccupazione Naspi dal 75 all’80 per cento dell’ultima retribuzione; un allungamento della durata massima dell’indennità di disoccupazione di 12 mesi, indipendentemente dalla storia contributiva di ciascun lavoratore, andando così oltre il tetto massimo attuale di 24 mesi; un aumento dell’importo massimo del trattamento economico per le retribuzioni superiori a 2.500 euro; l’immediata immissione del lavoratore in un percorso personalizzato di politiche attive nazionale programmato dall’Anpal e gestito in stretto collegamento con l’Inps.
Un coordinamento stretto fra Naspi e percorsi di ricollocazione
Il coordinamento è molto importante perché l’Inps, che è l’ente che eroga il trattamento Naspi, ha un interesse diretto al controllo sull’effettività della partecipazione delle persone che ne beneficiano alle iniziative per la rioccupazione. Sarebbe dunque un’ottima occasione per sperimentare un coordinamento Anpal/Inps, che potrebbe in un futuro non lontano dar luogo a una integrazione più stretta fra le due strutture, attivando gli incentivi giusti per il buon funzionamento delle politiche attive del lavoro.
Per poter realizzare questo ultimo passaggio è necessario che i centri per l’impiego e le agenzie per il lavoro siano coordinate dall’Anpal, chiamata a sovrintendere alla presa in carico del lavoratore e all’effettivo suo inserimento nel tessuto produttivo. Alla stessa Anpal competerà di valorizzare sui territori la sinergia e la cooperazione tra i servizi pubblici e i servizi privati, tra cui devono essere compresi anche gli operatori del terzo settore. Nel contempo, grazie al sistema informativo dell’Inps, ben più efficiente di quello dell’Anpal e delle regioni, sarà possibile rendere effettiva la condizionalità tra l’erogazione del trattamento economico di disoccupazione e lo svolgimento effettivo delle attività che il lavoratore è chiamato a intraprendere, e nei tempi stabiliti. Il collegamento tra il sostegno del reddito del disoccupato e l’effettività delle misure per il suo inserimento nel tessuto produttivo, unica garanzia del reale funzionamento delle politiche attive, è così affidato a un sistema di gestione integrata delle misure stesse e del trattamento di disoccupazione.
È evidente che questo passaggio necessita di un passo indietro delle regioni, cosa che peraltro è già accaduta con la gestione della cassa integrazione in deroga. Ma necessita anche di un inedito impegno comune di imprese e sindacati perché la nuova strategia per la soluzione delle crisi occupazionali non resti sulla carta.