Belgiojoso La figlia del secolo

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E’ il titolo di una biografia di Cristina Trivulzio di Belgiojoso uscita nel 1906 a New York, a dimostrazione del fascino esercitato oltreoceano ancora a inizio Novecento da una delle figure che più hanno inciso sull’immaginario del Risorgimento al femminile. Un po’ come i Carbonari Counts che duecento anni fa dal Piemonte e dalla Lombardia partirono per contribuire alla causa dell’indipendenza greca, Cristina di Belgiojoso, “figlia del secolo”, nata nel 1808, coniuga passione e mezzi, determinazione e azzardo, accogliendo la sfida della propria generazione. Incapace di stare a guardare, disponibile a mettersi in gioco, non è un modello facilmente ripetibile ma è di quelli che possono fare la differenza nell’avventura collettiva che conduce all’unificazione politica della penisola e alla sua nascita come stato sovrano. La donna composta dallo sguardo penetrante, gli occhi grandi e l’ovale affilato che ci restituisce il modernissimo ritratto di Henri Lehmann (1844) conservato nella dimora di famiglia, il castello di Masino, è una personalità che vive nella sfera privata tensioni ed evoluzioni tipiche dell’Ottocento romantico — il rifiuto a 16 anni del matrimonio combinato con un cugino; la scelta di un rampollo affascinante ma malato e sperperatore come il principe Emilio di Belgiojoso; una figlia, Maria, nata nel 1838, di cui non rivelerà mai la paternità; la bulimia nelle letture; i viaggi in Oriente — agevolata in ciò dal privilegio della disponibilità economica: 40.000 lire austriache la sua dote di nozze.
Con altrettanta energia Cristina osa entrare nella sfera pubblica: dalla scrittura all’azione, dal giornalismo militante nell’effervescente 1848, alla raccolta di volontari che trasporta a Genova via mare, a una filantropia non più carità aristocratica bensì sperimentazione sociale nel solco delle idee di Fourier che applica nelle sue terre di Locate, alle porte di Milano. Affamata di storia e di filosofia, recettiva nei confronti delle idee di autori come Quinet, Michelet, Lamartine, Sismondi, ma anche di pensatori quali Vico e Montesquieu — come testimonia il percorso di letture ricostruito da Karoline Rörig nel bel volume curato nel 2010 con Mariachiara Fugazza ( La prima donna d’Italia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo, Franco Angeli) — elabora una rilettura critica del passato d’Italia e a metà degli anni Quaranta si accosta all’idea di uno Stato unitario a guida monarchico-costituzionale che espone negli articoli Sullo stato attuale d’Italia nel periodico da lei fondato, L’Ausonio: un laboratorio di giornalismo che la prepara alle sfide del 1848, quando con un altro giornale, Il Crociato, tra aprile e maggio si inserisce nello scontro tra democratici e moderati sostenendo l’unità e la monarchia temperata dallo Statuto come le migliori soluzioni per il destino politico della penisola. Nelle due parti dello scritto Ai suoi concittadini. Parole, il suo è un appello a superare il municipalismo, ma anche un invito a essere all’altezza della ritrovata libertà dallo straniero, rifuggendo dai camaleonti politici, tipici nelle transizioni di regime. Pragmatica e determinata — così appare nel disegno di profilo di Chiappori pubblicato da Ratti e Charlot, icona anche estetica della stagione rivoluzionaria — anticonformista al punto da risultare fanatica o eccentrica, la Belgiojoso sconta in realtà pregiudizi e incomprensioni ma non si abbatte: neanche quando, come ritorsione per il suo impegno politico, il governo austriaco sequestra nel 1853 i suoi beni in Europa, costringendola a reinventarsi nell’esilio parigino e a negoziare nel 1855 un rimpatrio al prezzo del silenzio in materia politica. Si apre così una nuova fase, quella della narrativa e dei racconti di viaggio, dal compendio di storia romana per bambini del 1850, concepito forse per la figlia e destinato ai bambini delle scuole create a Locate, ai Racconti turco-asiatici del 1857. Nel 1860 è la volta di una monografia in francese su casa Savoia, approdo dell’investimento sulla monarchia come agenzia di nazionalizzazione comune al fronte liberale filopiemontese che si coagula negli anni Cinquanta. Il primo decennio postunitario la coglie tuttavia in una fase di ripiegamento esistenziale che ne accompagna la crescente fragilità fisica, quasi un prosciugamento per le tante energie spese, non ultime quelle per far legittimare la figlia e assicurarle un avvenire. L’attenzione per la condizione femminile sfocia nel saggio del 1866 per la Nuova Antologia nel quale l’esuberante stagione delle battaglie pare come temprata dalle riflessioni della maturità, dai viaggi in terre altre, dall’esperienza dolorosa del mondo. L’istruzione viene così proposta come la sola chiave per guadagnare alle donne dignità e rispetto: è questa la vera libertà, altre non vanno rivendicate dalla donna che è anzitutto madre. Un arretramento o un’evoluzione? Forse Cristina, che, morendo nel 1871, attraversa quasi tutto l’Ottocento, resta una nostra contemporanea anche per la sua personalità complessa, per l’insaziabile curiosità, per la paura dell’oblio e la volontà di combattere il disfattismo: «[…] non avendo mai sperato un governo perfetto», scrive nel 1861 all’amico Antonio Ranieri, «non sono punto né sorpresa né sdegnata a vedere le imperfezioni del nostro. Sono poi così soddisfatta di quanto l’Italia ha ottenuto e della via sulla quale si cammina, che considero come dovere di ogni buon cittadino di porre tutto in opera onde consolidare le nostre conquiste e impedire che si disfaccia il fatto». (da Robinson, La Repubblica, marzo 2021)

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