Assegno unico per i figli: non tutto è risolto

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L’assegno uno e trino

L’approvazione del disegno di legge delega per la riforma del sostegno dei carichi familiari (Auuf, assegno unico e universale per i figli) apre una nuova fase, certamente innovativa, delle ultradecennali e frammentate politiche di sostegno dei carichi familiari. Il Ddl, che lascia aperti spazi di interpretazione e integrazione, è stato già commentato in altri interventi (qui e qui).

Pur valutando l’intervento come un chiaro progresso rispetto alla situazione vigente, riteniamo sia utile sottolineare ulteriori elementi e criticità, a beneficio di una riforma attesa e delineata su queste linee da almeno un quindicennio.
Nelle numerose versioni proposte per il superamento delle detrazioni familiari Irpef e per l’assegno al nucleo familiare (Anf) si dava per scontato che, a partire dalle analisi sui difetti dei due strumenti vigenti, si sarebbe costruito un nuovo assegno davvero unico, generalmente parametrato a un reddito equivalente.
La delega attuale ragiona invece solo sui figli a carico (e nemmeno tutti), lasciando in piedi due pezzi della precedente normativa sia in tema di detrazioni familiari (per il coniuge a carico e per gli altri familiari non coperti dal nuovo assegno), sia per l’Anf indirizzato oggi a nuclei senza figli. In termini di pura complessità amministrativa – un indicatore importante per la valutazione di una buona politica, soprattutto nel contesto italiano – ne segue che il nuovo assegno in realtà poggia su tre gambe, comprendendo le previgenti due giudicate inappropriate. Dunque, seppur incidendo su una platea più ristretta, si mantengono inalterati alcuni principi dell’impianto precedente:
– le detrazioni familiari, infatti, stabiliscono la quota “spettante” in base a un reddito complessivo ormai lontano rappresentante del principio della comprehensive income tax e sostanzialmente privo dei redditi da patrimonio. Inoltre, determinano il noto e iniquo meccanismo dell’incapienza, che eroga oggi al 20 per cento più povero dei nuclei familiari meno del 50 per cento delle detrazioni familiari a loro “spettanti”;
– gli Anf sono invece uno strumento categoriale (riservato ai soli lavoratori dipendenti), la cui entità è parametrata a un reddito familiare costituito nella pratica dal reddito complessivo Irpef (con l’esclusione appunto dei redditi da patrimonio) quando non dal solo reddito da lavoro dipendente.
Perché non applicare le nuove logiche di sostegno anche alle detrazioni per coniuge a carico e alle altre forme di sostegno? Se l’incapienza è fenomeno particolarmente iniquo nel penalizzare proprio i nuclei a più basso reddito, non cesserà di esserlo per i nuclei monoreddito con coniuge a carico che resterebbero soggetti al vincolo. Inoltre, se la valutazione dello “stato di bisogno” è più precisa prendendo in considerazione le componenti di reddito da patrimonio, perché continuare ad attribuire detrazioni familiari e Anf che non le computano?

Il ruolo del patrimonio e dell’Isee

È bene, inoltre, esaminare senza preconcetti dal punto di vista metodologico il ruolo assegnato all’Isee come misura del benessere economico o del bisogno in base al quale tarare il nuovo assegno.

L’Isee è, in estrema sintesi, un indicatore definito da due caratteristiche.

1) Tenta di coniugare una semplice “misurazione” dei redditi globali, compresi quelli da patrimonio, con alcune correzioni che portano a esentare, aggiungere, aumentare o diminuire le componenti che costituiscono l’indicatore finale. Le correzioni mirano a obiettivi già perseguiti dal sistema e in modo implicito, perciò poco trasparente. Un esempio su tutti è la sostanziale esenzione per la prima casa, che altera la valutazione sia del reddito sia del patrimonio del nucleo familiare, determinando disparità tra famiglie. Se il legislatore vuole esentare il proprietario dal pagamento delle imposte sulla casa, può farlo, ma dovrebbe astenersi dal correggere simultaneamente la quantificazione dell’indicatore di benessere per il suo possesso. In generale gli obiettivi andrebbero definiti volta per volta a partire dalla misura del benessere economico o del bisogno.

2) Al computo del reddito equivalente, calcolato con i limiti appena segnalati, aggiunge un 20 per cento del valore patrimoniale – soggetto, tra l’altro, alla ben nota sottostima dei valori catastali: si determina così una disparità di trattamento con i patrimoni finanziari. In tal modo, volendo ricondurre l’indicatore a una misura di reddito, pur equivalente, è come se la componente da patrimonio fosse un multiplo rispetto agli altri redditi da lavoro (per esempio, un patrimonio di 100 che genera un reddito di 2,5, ai fini dell’Isee si vedrebbe aggiungere altri 20 di componente patrimoniale, risultando 2,5+20, cioè 9 volte il reddito da patrimonio).
Il ruolo del patrimonio viene motivato come una forma di identificazione di pregressa evasione. Ma i non evasori (una maggioranza) producono comunque alti volumi di risparmio, mentre d’altro canto una quota di evasori non accumula patrimonio. Queste forme di identificazione indiretta dell’evasione, più volte concretatesi nel sistema tributario (dalla minimum tax fino agli studi di settore o al cosiddetto redditometro), sono rischiose, a volte ritenute approssimative, poco sostenibili nel contenzioso e di fatto spesso abbandonate.
Con queste premesse, dare all’Isee il ruolo di parametro di riferimento per la determinazione dell’entità dell’assegno spettante vuol dire da un lato attribuire un peso eccessivo al possesso del patrimonio (peraltro mal misurato nei valori immobiliari), dall’altro allontanarsi dalla misurazione tradizionale del bisogno che nella quasi totalità dei sistemi di welfare occidentali è assegnata al reddito (meglio se equivalente) o alla spesa, indicatori di flusso più appropriati per la determinazione del sostegno a carichi familiari, che sono spese correnti.
A queste considerazioni se ne deve aggiungere una ulteriore, già espressa anche in queste pagine. Le previgenti forme di sostegno si fondavano sostanzialmente sul reddito da lavoro, senza quello da patrimonio. Da questo criterio, si passa ora a uno in cui il reddito da patrimonio pesa in maniera molto forte. È per questo che nelle simulazioni di accompagnamento alla riforma si è notato un buon numero di nuclei che perdono in tutto o in parte il beneficio. Rimediare al problema con una clausola di salvaguardia sarebbe poco coerente. Nel lungo periodo, prima o poi, le clausole si interrompono ed emergono in ritardo i perdenti.
È importante avere coraggio e avere fiducia fino in fondo nei principi adottati per il nuovo sostegno: se si crede a una riforma poiché più equa, più estesa e (forse) più semplice, si accettano gli eventuali perdenti proprio perché questi hanno beneficiato in precedenza di criteri allocativi ritenuti impropri o iniqui.

Uno scenario di riforma

Sulla base di queste considerazioni, in un prossimo intervento descriveremo lo scenario di riforma che abbiamo presentato nell’ultimo rapporto annuale Inps e nella specifica audizione parlamentare del 20 ottobre 2020.

* Le opinioni espresse sono esclusivamente personali e non coinvolgono l’Istituzione di afferenza.

Fernando Di Nicola ed Edoardo Di Porto, da “LaVoce Info“, 16 aprile 2021

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