Operazioni con parti correlate, conflitti di interesse, strutture proprietarie chiuse e club ristretti di amministratori sono vizi endemici della borsa italiana. Chi ne soffre sono i piccoli azionisti e, con loro, l’economia nazionale, perché si alza il costo del capitale, che sconta gli abusi compiuti dai soci forti. E’ ancora in bozza un regolamento Consob che adatta e applica principi e procedure tratti dal diritto americano. E’ così in grado di rivoluzionare il trattamento delle operazioni che più si prestano a espropriare i soci di minoranza. Le parti correlate sono quei soggetti che possono, per i particolari rapporti con una società, influenzarne la gestione o singole operazioni. Quando la società contratta con una parte correlata, è alto il rischio che l’operazione venga conclusa a condizioni diverse da quelle che si avrebbero in una contrattazione di mercato. Se, per esempio, la stessa persona è socia di una società per il 60 per cento e di un’altra per il 100 per cento, nella transazione avrà interesse a favorire la seconda società, di cui è socia al 100 per cento, a danno dei soci di minoranza della prima. La Consob, sulla base di una delega molto ampia contenuta nell’articolo 2391-bis cc, ha predisposto un regolamento per la disciplina delle operazioni con parti correlate (Opc). Dopo un primo giro di consultazioni, la seconda bozza è stata pubblicata ad agosto e aperta ai commenti.
La Consob guarda al Delaware
La disciplina predisposta dalla Consob è in grado di rivoluzionare le abitudini delle società italiane per ciò che riguarda le Opc. Un ruolo molto rilevante è affidato agli amministratori indipendenti, ovvero quegli amministratori che non sono legati alla società, ai suoi amministratori e ai suoi azionisti di rilievo da rapporti, personali o patrimoniali, in grado di condizionarli. Ciascuna società deve costituire un comitato di amministratori indipendenti che dia un parere sulle Opc che intende effettuare; il comitato può avvalersi di esperti a spese della società per l’esame dell’operazione e delle sue ragioni e per verificare che essa sia conclusa a condizioni convenienti e sostanzialmente corrette. La previsione è molto importante e mira a mettere il comitato di indipendenti nelle condizioni di svolgere efficacemente il proprio lavoro, con l’eventuale ausilio di banche d’affari, esperti aziendali o avvocati di loro fiducia. Per le operazioni normali, il parere non è vincolante; il regolamento affida quindi alla reputazione e alla disciplina di mercato il compito di “punire” le società che compiano ugualmente, nonostante il parere negativo del comitato, l’Opc programmata. Per le operazioni “rilevanti” (essenzialmente, quelle di grande valore), invece, il parere del comitato è vincolante; se è negativo, l’Opc non si può fare, a meno che non sia autorizzata dall’assemblea, nella quale però non può votare il socio eventualmente interessato all’operazione. Lo stesso vale se l’Opc richiede, per sua natura, l’approvazione dell’assemblea. La disciplina elaborata dalla Consob è un notevole esempio di alta tecnica regolamentare che cerca di adattare al contesto italiano – fatto di società a proprietà concentrata, consigli d’amministrazione fortemente interconnessi, un costume poco sensibile all’integrità dei mercati finanziari e un sistema giudiziario lento e formalista – la disciplina del Delaware, quel piccolo Stato che, grazie a una legge sempre aggiornata e a un sistema di corti efficiente ed equo, è scelto come sede dalla gran parte delle società quotate americane.
Il regolamento, infatti, fa molte cose tutte insieme:
(a) usa fino al limite estremo il potere regolamentare dell’autorità indipendente, comprimendo (lecitamente) lo spazio dell’autonomia statutaria come prima di essa aveva fatto forse solo la Banca d’Italia con il regolamento sui sistemi di amministrazione e controllo delle banche (b) si inventa una disciplina che, per le operazioni rilevanti, è self-enforcing, nel senso che consente di impedire ex ante, e non solo reprimere ex post, le malefatte dei gruppi di comando. Una cosa è poter votare “no” e affossare un’operazione, un’altra cosa dover agire in giudizio per dimostrare che l’operazione non era lecita, non era equa, non era conclusa a condizioni normali; (c) trasforma obblighi di comportamento (che le corti americane valutano facendo uso dell’armamentario concettuale dei fiduciary duties) in regole di validità, molto più facili da applicare per giudici oberati dalle cause e con una tendenza al formalismo come quelli italiani. Di fatto, il giudizio sulla bontà dell’operazione è lasciato alla minoranza disinteressata, così sottraendolo non solo alla maggioranza, ma anche al giudice, al quale non viene richiesto di accertare se una operazione è conveniente e opportuna, ma solo se è stato correttamente percorso l’iter procedimentale e sono stati espressi correttamente i necessari consensi.
Una battaglia di retroguardia
Per funzionare, questa disciplina richiede due ingredienti aggiuntivi, che sembrano esserci già nel mercato, restando solo in attesa del catalizzatore. In primo luogo, delle minoranze attive. Assogestioni – associazione del risparmio gestito – ha chiesto di valorizzare il ruolo degli amministratori nominati dalle minoranze, la cui previsione è stata introdotta dalla legge sulla tutela risparmio. La richiesta è un buon segno, perché implica che c’è qualcuno, nel mercato, che intende avvalersi degli strumenti offerti dalla legge. Un ruolo ancora maggiore potrebbe venire dagli hedge funds, che non hanno i problemi di incentivi, i vincoli di portafoglio e i conflitti d’interesse dei fondi comuni non speculativi: sicuramente ci saranno nuovi sviluppi nel loro attivismo, adesso che la raccolta di capitali è ripresa. Il secondo ingrediente è un mercato in grado di punire i comportamenti opportunistici dei gruppi di comando, in danno degli azionisti di minoranza; un mercato sensibile alla reputazione degli emittenti, ma anche dei membri dei consigli di amministrazione, che sappia ribellarsi a pareri compiacenti e a operazioni sospette. Per esempio, se anche non fosse introdotto (come non c’è nella bozza attuale) un obbligo specifico di includere nel comitato di indipendenti anche l’amministratore di minoranza, sarebbe davvero un pessimo segnale non nominarlo nel comitato. Ma, appunto, c’è bisogno di un mercato sensibile a questi segnali. Il recente attivismo degli investitori istituzionali e dei fondi e il loro contegno in queste consultazioni lascia ben sperare. Ed è forse per questo che si sta combattendo una battaglia di retroguardia che non osa attaccare l’impianto della disciplina – certo perfettibile, ma talmente innovativa che farà fare un balzo in avanti di anni al quadro normativo della corporate governance italiana. Si appunta invece su alcuni “dettagli” per cercare di evitare imbarazzi a Mediobanca e alla galassia che gravita intorno ad essa. Assosim ha chiesto di escludere dall’ambito di applicazione del regolamento le operazioni finanziarie, Abi ha proposto di escludere dalla nozione di “parte correlata” i partecipanti ai patti di sindacato di controllo che abbiano meno di una data percentuale del capitale. Questi “adattamenti” consentirebbero di lasciar fuori dall’ambito di applicazione del regolamento la gran parte delle operazioni compiute da Mediobanca e dai suoi soci. Ma c’è di che essere ottimisti. Comunque vada, la nuova disciplina sembra un punto di non ritorno. Fissa standard a livelli tali che, anche se il regolamento dovesse essere ammorbidito per venire incontro alle richieste delle associazioni vicine a Mediobanca, la disciplina delle Opc farebbe un enorme salto di qualità.
Andrea Zorzi, da “LaVoce.it”, novembre 2009