Una nuova frontiera per l’industria automobilistica italiana

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Capita assai raramente che gli Usa, prima potenza mondiale in campo industriale, guardino con benevolenza all’Italia, paese trasformista e, per sua stessa natura, litigioso con una preoccupante instabilità politica di governo, al fine di richiedere proprio a quest’ultimo la soluzione per risolvere una crisi interna.
Sia pura di natura industriale. E non credo che la scelta non sia stata ponderata.
Neppure dettata dal bisogno impellente di quando si dice: “avere l’acqua alla gola” e aggrapparsi a un semplice ramo galleggiante potrebbe significare aver salva la vita, quando si viene da un disastroso naufragio.
Avere la coscienza di trovarsi al bivio tra adottare la formula che è stata praticata con successo in Italia o la bancarotta.
O mangi la minestra oppure il salto fuori dalla finestra.
L’ha ripetuto lo stesso presidente Obama nel corso della sua recente visita sul vecchio continente: la Fiat potrebbe salvare la Chrysler.
Lasciatemelo dire: è un pizzico di orgoglio vedere il colosso Chrysler, il prestigioso marchio automobilistico statunitense, che diventa partner con la Fiat, l’industria delle quattro ruote di Torino. Un po’ di fiero patriottismo non guasta mai e supera di gran lunga le recenti gaffe del nostro premier in terra di Praga (la telefonata sul cellulare ripresa da tutte le televisioni e giornali esteri, stamane al punto da far strappare commenti durissimi al premier che ha preannunciato provvedimenti durissimi con i giornalisti) oppure il balletto delle direzioni delle maggiori testate italiane (Riotta, ex direttore delTg1 al Sole24Ore al posto di De Bortoli il quale andrà in via Solferino al CorSera in sostituzione di Paolo Mieli.
Ma veniamo al “patto d’acciaio” fra Chrysler-Fiat.
E’ tutto oro quello che luccica? Cosa ha da guadagnare la Fiat da questa “unione atlantica”? Di sicuro l’effetto rilancio in borsa del titolo Fiat che a questo punto (come se non lo fosse stato precedentemente) diventa a pieno titolo “un grande marchio mondiale”.
In subordine, una maggiore richiesta del prodotto sul mercato, se si apre con sempre accresciuta simpatica quello di lingua anglosassone. Quindi esportazione di tecnologie italiane. E questo è il dato più importate da considerare. Ha scritto ieri Fausto Panunzi: “Il presidente degli Usa ha ricordato come nell’ultimo anno il settore dell’automobile abbia perso 400 mila posti di lavoro e che nel Midwest, storico bastione delle case automobilistiche, il tasso di disoccupazione sia ormai molto elevato. Per non far pesare ancora di più la crisi sulle spalle degli operai, il governo americano è disposto a iniettare altri fondi nelle casse delle due imprese, dopo i 17 miliardi di dollari già spesi lo scorso anno”. Dunque s’impone una terapia d’urto, se è vero (come purtroppo sembrerebbe) che la crisi sia assai più grave e profonda di quella che può sembrare leggendo i giornali. Dunque, iniezioni Fiat.
Ma s’impone una successiva riflessione: fra tutte le case automobilistiche che ci sono al mondo, tra i tanti marchi più o meno gloriosi del pianeta, perché gli Usa sono venuti a guardare proprio nella casa torinese degli Agnelli?
on lo sapremo mai quali sono state le scelte razionali e no che hanno ispirato tali comportamenti, ma alcune considerazioni le voglio fare. Prima di tutto la formula di mettere sul mercato macchine che noi chiamiamo “utilitarie” cioè non enormi con alti costi. Ci ricordiamo tutti l’intuizione e il successo che incontrò sul mercato la Topolino prima e la cinquecento poi (passata alla seicento, alla settecentocinquanta, all’ottocento e così via a suggello della felicità della formula così premiata dagli utenti).
Quindi l’accordo dovrebbe suggellare il trasferimento oltreoceano di “tecnologia d’avanguardia” per costruire motori a basso consumo.
A basso consumo anche d’impatto ambientale. Una “macchina ecologica” cioè che guarda al rispetto dell’ambiente e che si schiera dalla parte del verde, cosa questa che non poteva non far breccia nell’immaginario collettivo americano. Infine un’altra considerazione: deve aver influito in Obama la circostanza che neppure qualche anno fa era la Fiat a trovarsi sull’orlo del baratro e poi si è così brillantemente ripresa.
Che gli Usa vogliano copiare la formula per la Chrysler, considerato che la quota di mercato di Chrysler negli Stati Uniti è diminuita dal 16,2 per cento del 1998 all’11 per cento attuale, con prospettive di ulteriori riduzioni?
Sembrerebbe proprio di sì, se si pensa che riportare Chrysler a generare profitti sarà un’impresa molto difficile. Dunque è piaciuta a Washington l’idea di automobili medio-piccole a tecnologie “verdi” di avanguardia. Infatti, nel 2007, le vetture del gruppo Fiat presentavano un valore medio di emissioni di CO2 pari a 137 g/km e si collocavano al primo posto nella classifica di tutti i produttori che operano sul mercato europeo.
E’ chiaro che l’accordo rappresenta una opportunità importante per Fiat, oltre che l’unica alternativa alla bancarotta per Chrysler. Ma quali rischi potrebbe correre la casa torinese? Il primo grande scoglio da superare sta proprio nel grave stato comatoso di Chrysler: riuscire a salvare il malato sarà un’impresa dura; secondo gli esperti, nel non riuscire nell’impresa, significherebbe per Fiat un danno in termini di reputazione.
Aggiunge e puntualizza Fabiano Schivardi: “Bene ha fatto Fiat a porre la condizione di nessun esborso di capitale: le garantisce di non essere coinvolta in un eventuale fallimento di Chrysler. Se il piano ha successo, Fiat valorizza la sua partecipazione, altrimenti non ci rimette, se non in termini di reputazione. Questo schema funziona nel breve periodo, diciamo da qui a fine anno. Più a lungo l’accordo dura, più difficile sarà per Fiat chiamarsi fuori. Se tra un anno Chrysler fosse ancora in attività, è difficile escludere un coinvolgimento finanziario e manageriale diretto dei torinesi. La ristrutturazione sarà lunga e costosa. Difficilmente i sei miliardi di dollari promessi, in prestito, dal governo americano saranno sufficienti. Valutare come e quando aumentare il coinvolgimento di Fiat in Chrysler costituisce il punto chiave in una prospettiva di medio periodo.
A Fiat conviene spingere per una prima fase di negoziazione “dura” con tutti i soggetti coinvolti (creditori, azionisti, fornitori), anche a rischio di fallimento dell’accordo, e quindi di Chrysler, per massimizzare le probabilità di un successo nel medio periodo. Un fallimento di Chrysler nei prossimi sei mesi sarebbe per Fiat molto meno problematico di un fallimento fra due anni a quel punto, l’accordo potrebbe diventare una zavorra molto pesante per Fiat stessa”.
Un piano che non nasconde i rischi.
Tra i pro e i contro, allo stato attuale delle cose sembra che prevalgano i punti a favore per l’industria torinese: quando il rischio diventa mestiere.

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