Il 6 giugno sarà una data importante, da quando esiste il Parlamento di Strasburgo: alle urne saranno chiamati per la prima volta circa 31 milioni di Millennials, come sono stati chiamati in America in occasione dell’elezione del nuovo presidente degli Usa, i ragazzi diventati maggiorenni nel XXI secolo. In Europa, dopo l’allargamento a 27 paesi membri, si conta che si esprimeranno per la prima volta coloro che hanno un’età compresa tra i 18 e i 22 anni il 6,2 per cento del totale della popolazione; le cose sono più ristrette in Italia, dove la percentuale è del 5,5 per cento. La voglia di contare, dunque.
La loro coscienza civica e politica si è formata all’epoca della caduta di Berlino, in pieno periodo di globalizzazione della politica. E’ la tradizione che si è formata su internet, in un panorama, quindi, ben diverso da quello dei loro genitori. Hanno maggiori competenze verso le nuove tecnologie e sono più aperti nel confrontarsi e rapportarsi con altre situazioni. “Varie ricerche condotte negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali – scrive Paolo Balduzzi, collaboratore della Voce – concordano nell’indicare i Millennials come più consapevoli, più partecipativi e meno individualisti, con maggior fiducia in se stessi e propensione al rischio rispetto agli attuali trentenni. Anche alcuni recenti dati riferiti al nostro paese sono coerenti con questo profilo. Secondo le ultime indagini Iard è aumentata sensibilmente la percentuale dei giovani italiani (15-24 anni) che considerano molto importante l’impegno sociale (dal 18 a oltre il 25 per cento) e l’attività politica (dal 2,7 al 6,1 per cento). Secondo i dati Istat, parlano tutti i giorni di politica il 9,4 per cento dei maschi 20-24enni (aumento di 5 punti percentuali dal 2000 in poi) e il 7,4 per cento delle femmine (+4,6 punti percentuali)”. E in Italia? A differenza dei loro coetanei americani, i Millennials italiani sono nati quando gli indici di fecondità era scesa stabilmente sotto la media dei paesi occidentali, ovvero in piena denatalità. Una generazione quindi quantitativamente meno influente e inserita in una società in pieno de-giovanimento, dove chi conta e ha voce in capitolo è ancora la categoria dei 55enni 69enni.
“I giovani nati nel nostro paese oltre a essere caratterizzati da debolezza demografica – aggiunge Alessandro Rosina – si trovano paradossalmente anche con maggiori limiti di partecipazione alle elezioni rispetto ai coetanei europei. Nella tabella 2 sono riportate le età di accesso all’elettorato attivo e passivo nei maggiori paesi europei. È interessante notare come negli Stati dove il peso delle nuove generazioni si sta riducendo maggiormente come conseguenza della persistente denatalità (Spagna e Germania), i vincoli anagrafici siano più bassi. Fa eccezione l’Italia, che si trova con limiti superiori a quelli della decisamente più prolifica Francia. Tra i paesi con bassa fecondità è poi da segnalare il caso dell’Austria, dove l’elettorato attivo è stato abbassato a 16 anni proprio per compensare la perdita di peso del voto giovanile”.
Ma allora cosa fare per responsabilizzare i ragazzi? Dare loro fiducia e creare quelle condizioni che permattono loro di inserirsi nell’agone pubblico: qualcosa del genere però lo si avverte e lo si percepisce; è necessario fare di più per disporre di una classe politica che sta al passo di quella di altri paesi che si pongono all’avanguardia.