L’EDITORIALE di Luigi Cignoni
Di fronte alle catastrofi naturali sembra “picciola” cosa la crisi economica che sta investendo la Grecia da una parte e il Portogallo dall’altra, nazione che pare sia la candidata numero uno risentire per prima della crisi finanziaria.
Poi, quando si pensa che basta un semplice funzionario in vena di speculazioni in borsa, allora si capisce la fragilità del sistema che stiamo vivendo: basta uno starnuto improvviso e incontrollato di qualcuno in sala, per far alterare i valori generali di contrattazione. Rapporti delicati.
A volte anche assai fragili. E’ la misura della nostra economia? E di quella europea?
Però qualcosa non torna. O quantomeno qualcuno ce lo deve spiegare con chiarezza.
Quando si è trattato di far entrare l’Italia nella moneta unica europea, ricordo che il governo (allora presidente della Repubblica era Ciampi) introdusse delle manovre assai impegnative e onerose per il popolo italiano.
Dovemmo, tutti in una certa misura, tirare la cinghia, pur di inseguire il sogno rappresentato dall’unità monetaria europea, convinti della bontà del disegno e soprattutto persuasi che quella fosse l‘unica strada che potevamo percorrere per una politica mondiale in cui non fossimo ancelle di nessuno.
La maggioranza degli Italiani era sicura della bontà del progetto economico al quale (naturalmente) seguiva un progetto politico che era fatto soprattutto di corrispondenza e condivisione di contenuti partecipativi. Insomma, quella che si dice una unilateralità di vedute. Purtroppo, ragionando con gli occhi di oggi, occorre riconoscere che questi intenti no sono stati mantenuti.
Qualche Paese ha capito che continuando a stare al passo degli altri non c’era progresso, non c’era movimento e i governi nazionali hanno iniziato a ragionare in termini interni, anziché con vedute europeiste. Insomma, si ha avuto la sensazione che il giocatolo si fosse rotto e che si doveva correre ai ripari per sistemarlo e farlo continuare a lavorare. Invece così non è stato.
Ricordo (oggi sono in chiave amarcord) che il giudizio dei commissari europei nell’accogliere l’Italia (occorreva ci fosse una certa relazione tra il prodotto interno lordo e la forza della nostra economia, forza di occupazione e di lavoro) era severo. Ebbene, questa stessa severità io non l’ho più riscontrata quando si è permesso a altri Paesi di entrare nell’Unione, sicché le loro economie hanno fin da subito avvertito il cambiamento e hanno avuto il fiatone.
Con gli occhi di oggi bisogna dire che mai scelta del genere fu felice. Occorreva aspettare; dare una tregua, dimostrare che il paese richiedente aveva le carte in regola per figurare alla pari dei quindici Paesi fondatori dell’Unione. Invece così no è stato. Si è preferito guardare ai numeri delle popolazioni coinvolte, anziché alle sostanze dei borsellini degli stessi richiedenti. Valutazioni politiche hanno portata a figurare in Europa nazioni che avrebbero dovuto avere un periodo maggiore di rodaggio della propria economia, dopo che l’impero sovietico si era disciolto.
E leggo stamani sulla Stampa il giudizio dell’ex presidente della repubblica Ciampi che ammette che è stato compiuto un errore accettare le nuove candidature dei Paesi emergenti.
Ora, è chiaro bisogna guardare avanti, per fronteggiare la crisi e il governo italiano deve essere pronto e avere energie per superare questo problema, non distratto dalla querelle che ha portato davanti al giudice il presidente del consiglio citato in tribunale dalla moglie la quale ha chiesto come provvigione 200 mila euro mensile, giusto per “mantenere lo stesso livello di vita” precedente alla causa di separazione; non distratto dalla macchia nera di petrolio che sta distruggendo l’habitat naturale della costa americana o dalla nube che proviene dal circolo polare artico e che minaccia di no far partire gli aerei, o la mancata partecipazione al festival del cinema Cannes del ministro Bondi dove si proietta Draquila, di Sabina Guzzanti.
I problemi che sono iscritti in agenda sono tanti e notevoli: occorrono decisioni e tempestività per risolvere, senza dover mancare il principio secondo cui la crisi non deve pesare sulle classi meno abbienti.