Perché dal 31 gennaio 2020 parleremo ancora di Brexit. E tanto

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Ecco perché dal 1 febbraio del 2020 sentiremo parlare ancora di Brexit.

Il leader conservatore britannico Boris Johnson, stravincendo le elezioni dello scorso 12 dicembre, ha assicurato i suoi elettori che manderà in soffitta la Brexit addirittura prima di Natale.

Un bel sentire per le orecchie d’oltre Manica e non solo, perché a dirla tutta anche da questa parte della Manica si è un tantino stanchi di parlare di Brexit quasi a vuoto. E infatti, tra le prime reazioni internazionali, venerdì 13 dicembre, si sono registrate quello del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e della presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, entrambi hanno salutato il risultato chiaro e netto che non poteva dare adito a dubbi sulla finalizzazione della Brexit.

Il grido di Johnson “Get Brexit done” è parso a tutti liberatorio e profetico. Una profezia facile da avverarsi a dire il vero, perché effettivamente il divorzio tra Unione europea e Regno Unito, un vero e proprio trattato, entrerà in vigore il 31 gennaio del 2020. Questo è poco ma sicuro, ormai.

La fase 2, la più complessa

È verissimo però che il diavolo si nasconde nei dettagli e in questo caso i dettagli si chiamano seconda fase della Brexit che inizierà il 1 febbraio del 2020.

E a sentire gli analisti – noi abbiamo sentito Federico Fabbrini dell’Università di Dublino dove tre anni fa ha deciso di creare il Brexit Institute per capire i risvolti politici, economici e giuridici della Brexit – è questa la fase più difficile e complessa dei negoziati.

Perché Regno Unito e Unione europea dovranno mettersi d’accordo su tantissimi settori: a partire dagli accordi commerciali da siglare, passando per la sicurezza e la difesa fino alla ricerca scientifica, gli scambi universitari, gli accordi per la tutela dell’ambiente.

Entrambe le parti vorrebbero concludere i negoziati entro il 2020, i più scettici pensano che il processo si protarrà addirittura per qualche anno. Un esempio che può essere un termine di paragone è l’accordo commerciale siglato tra Ue e Canada: ci sono voluti ben 7 anni.

Qualcuno potrebbe obiettare che visti gli anni trascorsi insieme, sarà anzi più facile accordarsi per intrattenere rapporti giusti e equi. Invece no, la Brexit come ci spiega Federico Fabbrini arriva perché i disaccordi tra le parti nella gestione di molti dossier erano insormontabili e renderà le differenze ancora più evidenti.

Processo storico senza precedenti

Al netto delle difficoltà e complessità delle negoziazioni che si apriranno il prossimo febbraio,

resta l’opportunità per i 27 di poter trovare una terza via per gestire i rapporti con i Paesi vicini. Non solo con il Regno Unito ma anche e soprattutto con Paesi come Macedonia e Albania e Ucraina, che nell’adesione all’Unione in fondo ancora ci contano, e Paesi del Nord Africa.

Il Brexit Institute nasce all’indomani del referendum sull’uscita dall’Unione europea, èd è stato il primo in Europa che ha iniziato a studiare i problemi politici, economici e giuridici della Brexit. Nell’ambito delle ricerche condotte dall’Istituto, dal 2017 in poi, emerge in maniera netta che la decisione di Londra di uscire dal club comunitario avrà almeno inizialmente ripercussioni economiche negative per il Regno Unito; apre un processo storico senza precedenti che imporrà riflessioni profonde sul funzionamento comunitario rappresentando una sfida per ripensare modalità e politiche Ue per interagire con Paesi terzi.

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