Miti e simboli: il melograno

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Vai, Persefone, presso tua madre dal peplo azzurrissimo,

rasserenati il cuore e l’anima in petto

e non rattristarti troppo, oltre ogni misura.

Così parlò Ade, si rasserenò Persefone saggia

e rapidamente s’alzò piena di gioia: ma lo sposo

le offrì da mangiareun chicco dolce di melograno,

di nascosto, guardandosi attorno, perché non restasse

per sempre presso la veneranda Demetra dal peplo azzurrissimo.

Cominciare a delineare i miti e le credenze attorno al frutto del melograno per noi occidentali significa partire dalla cultura Greca e da Omero, il primo cantore della nostra civiltà. Partendo da questo antico poeta e dalla sorte della bella Persefone iniziamo il nostro itinerario fra le segrete simbologie dell’albero della melagrana, in omaggio allo stemma rigoglioso dell’Azerbaijan. I versi sopra riportati sono un piccolo assaggio dell’Inno a Demetra, componimento scritto da Omero, si pensa sulle coste dell’Asia minore (all’epoca colonia greca in molte sue parti), circa ventisei secoli fa. La favola vede Demetra, dea delle colture cerealicole e delle messi, disperata per la sparizione della bellissima figlia Persefone, rapita da Ade, il dio degli Inferi, mentre era intenta a raccogliere fiori in un prato. La madre, ignara della malefatta del dio, vagò disperata alla ricerca della figliola per nove giorni e nove notti, finché la dea lunare, Ecate, le rivelò che all’alba aveva sentito Proserpina gridare: «Aiuto, aiuto!». Il decimo giorno anche i figli del re di Eleusi, Celeo, le confidarono di essere stati testimoni oculari del rapimento della giovane da parte del dio infernale. Demetra non si perse d’animo e, pur di riavere sua figlia, impedì agli alberi di produrre frutti, all’erba di crescere, alle messi di germogliare in ogni angolo del pianeta. Gli esseri umani stavano morendo di stenti per volere della dea. Il signore degli dei, il sommo Zeus, cercò di placare l’ira di Demetra con missive e doni, ma tutto fu vano. Era un cataclisma! Se la terra non avesse ricominciato subito a fruttificare sarebbero morti tutti gli esseri umani. Zeus mandò a suo fratello Ade, negli inferi, un messaggio telegrafico: «Se non restituisci Persefone, siamo tutti rovinati!» e un altro lo mandò ad Eleusi presso Demetra: «Potrai riavere tua figlia, purché lei non abbia ancora mangiato il cibo del morti!». Purtroppo Persefone aveva già assaggiato qualcosa negli inferi: sette chicchi di melograno e il giardiniere Ascafalo fece la spia. La giovane era ormai legata al mondo dei morti, per sempre. Demetra minacciò gli dei di continuare a far morire il genere umano se non si fosse raggiunto un compromesso, che finalmente fu trovato: Persefone avrebbe risieduto tre mesi l’anno nell’oltretomba con Ade, come regina dei morti, mentre i restanti nove mesi, allo scoccare della primavera, sarebbe risalita sulla terra, accanto alla madre. E’ evidente che il mito rinvii al ciclo delle stagioni, alla morte e alla rinascita della natura, incarnate entrambe dalla dea Persefone: quando lei abbandona la terra, per tornare da Ade, sopraggiunge il triste inverno, quando lei risale sulla terra, in primavera, rifiorisce la vita. E a questa simbologia si lega anche il frutto del melograno, emblema di morte e resurrezione. La rinascita naturale implica la fertilità del terreno ed ecco che il frutto del melograno, proprio come Persefone, viene connesso anche alla sfera della fertilità e dell’abbondanza nella cultura dei nostri popoli.

Un bellissimo mito frigio ci aiuta a comprendere come la figura del melograno sia connessa alla morte, alla rinascita naturale ed anche alla fertilità. Scopriamolo insieme: c’era una volta una pietra di nome Agdos. Il dio del cielo, di nome Papas, si addormentò su di essa (secondo una variante del mito i due ingaggiarono una lotta) e, nel mentre, alcune gocce del suo seme bagnarono la pietra, che generò un malvagio gigante androgino di nome Agdìstis. Costui era talmente crudele che gli dei diedero incarico a Dioniso, dio del vino e dell’ebbrezza, di punirlo severamente. Dioniso allora tramutò in vino le acque di una sorgente, a cui il gigante era solito abbeverarsi dopo la caccia, e, nascostosi, ne attese l’arrivo. Quando sopraggiunge, Agdìstis bevve a grandi sorsi dalla sorgente e ubriaco si addormentò. Dioniso uscì dal suo nascondiglio e, di soppiatto, legò con una spessa fune il membro del gigante addormentato ad un arbusto. Passata la sbornia, Agdìstis balzò in piedi con tanta foga che si evirò, il suo sangue gocciolò sul terreno e dalla terra all’istante sorse un albero di melograno bellissimo. Passò del tempo che si trovò a passeggiare da quelle parti una ninfa di nome Nana, figlia del fiume Sangarios. La giovane rimase folgorata dalla bellezza dei frutti sull’albero. Se ne depose uno sul ventre e il melograno sparì. Cosa successe? La ninfa rimase incinta del melograno e dall’unione dei due nacque Attis, il giovinetto dalla bellezza eterna, paggio di Cibele, a cui uno dei poeti più grandi della Roma antica, Gaio Valerio Catullo, dedicò un carme immortale, il 63.

Proprio come Dioniso, a cui il melograno è spesso associato (il vino e il melograno condividono il colore rubicondo che li assimila entrambi al sangue, viatico di morte e rinascita), anche il nostro frutto proviene dall’Asia occidentale. Giunse nel mediterraneo per tramite dei Fenici che subito lo collegarono all’idea di fecondità-fertilità ed eterno ritorno. Non per niente, non solo la già citata Persefone, ma anche la dea greca dell’amore e della riproduzione, Afrodite, predilesse il melograno: la leggenda narra che avesse donato la pianta agli abitanti della sua isola più devota, Cipro. Anche la greca Era, signora degli dei, protettrice della famiglia e dei parti, spesso è stata raffigurata con un bimbo in braccio e il frutto nella mano destra, iconografia che tanto ricorda le Madonne col melograno d’epoca cristiana fra il XV e il XVI secolo. Presso gli antichi romani il frutto conservò le stesse simbologie: per propiziarsi la fertilità, le giovani spose cingevano il capo con corone di melograno, così come gli scalpellini erano soliti incidere bassi rilievi di melograni sulle tombe e i parenti dei defunti erano soliti buttare bucce/semi o immettere melograni di terracotta nei sepolcri, per propiziare la rinascita dei parenti estinti.

Anche nel Cristianesimo il melograno conserva le antiche valenze, piegate a utile di una nuova fede: la femminilità nelCantico dei Cantici(«come specchio di melagrana la tua gota attraverso il cielo»), la prosperità nelLibro dei Re,dove i melograni diventano ornamento fastoso dei capitelli del tempio di Salomone, la morte e resurrezione di Cristo, la castità mariana (risuona così un versetto dellalauda dei servi di Maria(«Fanciulla gravida di semi di cielo/ al calice lo disseti della tua tenerezza») e in più il simbolo si permea di un nuovo senso per la cristianità: il frutto che raccoglie in sé tanti chicchi diventa simbolo dell’unità dei fedeli in Cristo. E se nel Deteuronomio il melograno è indicato come uno dei ricchi prodotti della Terra Promessa, così anche nel Corano viene proposto come uno dei frutti prediletti nel Giardino del Paradiso. La seduzione di questo frutto, la sua effige su molti oggetti di culto ebraici (il candelabro dell’Hanukkah, il bastone dell’etz chaym nelle loro varianti più antiche degli ebrei marocchini) ha spinto alcuni teologi e molti studiosi laici, tra cui Robert Graves, a dar voce a un ipotesi strabiliante: l’albero della vita nelParadiso Terrestrebiblico non sarebbe mai stato un melo, bensì un melograno! Non sono da meno i filologi classici: alcuni di loro affermano che il pomo della discordia fra le dee dell’Olimpo greco, quel famoso pomo che accese la favolosa guerra di Troia per giudizio di Paride, fosse,udite udite!, un melograno, magari proveniente dalle regioni caucasiche, dall’Azerbaijan in specie, dove una festa che sa di antico gli è ancora dedicata. Ma anche qui in Italia, nel Salento, a Palmariggi, un piccolo antichissimo borgo, festeggiano ancora il melograno agli inizi di ottobre e con lui il mito di un simbolo straordinariamente uguale per tutti, da oriente a occidente, nell’eterno ritorno delle sue significazioni.

Gilda Bellantoni

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