Ci mette un po’ a lasciarsi travolgere dall’orgasmo di gioia che monta dentro. Non sale sul seggiolone dell’arbitro come Velasco nel 1990 al Maracanazinho di Rio de Janeiro. Abbraccia tutti i ragazzi d’azzurro vestiti come il suo maestro ad Atene nel 1994. Come Bebeto a Tokyo nel 1998. Festeggiano tutti a Katowice. E sorridono. Perché sì, gli attacchi vincenti, i muri, le difese. Tutto fondamentale per vincere un Mondiale. Ma senza il sorriso, senza la serenità e la maturità di chi – nonostante l’inesperienza a questo livello – ha imparato ad accettare che dall’altra parte della rete c’è una squadra come , che sugli spalti dell’arena a forma di Ufo ci sono 12mila persone che li spingono con l’entusiasmo di 50mila, che in una finale mondiale si può anche sbagliare, non si vince. Ma quando si è preparato tutto alla perfezione, le certezze sono sempre lì a portata di mano. E di testa., torna sul tetto del mondo per la quarta volta e E allora forse non era poi così una sorpresa l’Italia che a settembre scorso, nello stesso palazzetto, ha vinto l’Europeo. E non è nemmeno una sorpresa che la stessa squadra, un anno più tardi, ha issato il tricolore sul tetto del mondo per la quarta volta nella storia dopo il tris della «Generazione dei fenomeni». Perché nel successo sulla Polonia, in un Paese in cui i giocatori di pallavolo sono popolari quasi quanto i nostri calciatori, in cui la pallavolo, se non è lo sport nazionale, poco ci manca, c’è tutto lo stile del suo condottiero salentino. www.msn.com/it