Il dissenso ufficiale che la Banca d’Italia ha espresso recentemente per bocca del governatore Mario Draghi rispetto alla introduzione delle gabbie salariali sembra aver spento, per ora, il fuoco della polemica estiva sul tema. Tuttavia, la questione rimane aperta, e ci sembra importante che il dibattito venga ancorato a due punti fermi. Il primo è che, poiché il mercato si è già largamente incaricato di “riequilibrare” i salari effettivi fra Nord, Centro e Sud, eventuali disparità nel costo della vita vanno identificate all’interno, più che fra le macroaree. Il secondo è che le statistiche esistenti vanno riviste perché non colgono adeguatamente il costo della vita per una persona che lavora.
Salari e costo della vita
Il mercato ha già provveduto a creare differenziali di reddito e di salario a favore del Centro e del Nord del paese. Secondo le ultime rilevazioni della Banca d’Italia, il differenziale medio nel reddito da lavoro tra Centro-Nord e Sud ammonta al 16 per cento, valore molto prossimo al differenziale del costo della vita che viene stimato attorno al 17 per cento. Le disparità regionali riflettono effettive disuguaglianze di salario e non solo di ore lavorate. Secondo l’indagine europea sulle famiglie, tra il 1994 e il 2001 i disoccupati meridionali hanno accettato salari orari mediamente inferiori del 24 per cento rispetto a quelli accettati al Centro-Nord. La cifra sale al 34 per cento se si restringe il campione dei disoccupati alle sole donne e schizza al 38 per cento se lo si restringe ai soli laureati.
Le statistiche esistenti sul costo della vita sono invece meno pacifiche dei dati sui salari, specialmente quando si guarda a chi lavora e, in particolare, alle donne che lavorano. Lavorare comporta spesso spendere di più in affitto oppure in trasporto e in pasti fuori casa. Significa anche dover pagare per i servizi di cura quando si hanno bambini o adulti che li richiedono e non si può contare sui nonni.
La stima del costo della vita effettuata dalla Banca d’Italia tiene conto in qualche misura di tutte queste voci, ma considera il prezzo, non la disponibilità effettiva dei servizi rispetto alla domanda. Ciò ha implicazioni importanti. Prendiamo ad esempio i servizi di trasporto. La quota di utilizzatori di autobus, filobus e tram è di circa il 24 per cento in media nazionale, ma scende al 17 per cento nel Mezzogiorno.
In tema di trasporto ferroviario o aereo non mancano esempi eclatanti. Matera è capoluogo di provincia, ma non esiste un servizio pubblico di navetta con il più vicino aeroporto, quello di Bari; alla bisogna, si ricorre a servizi privati sostitutivi a prezzi che partono da 40 euro sul mercato “informale”, più di quanto costi un biglietto RyanAir tra Bari e Pisa.
Discorso analogo per i servizi sociali. Secondo l’ultima indagine sul costo degli asili nido, il valore medio della retta per una famiglia rappresentativa di tre componenti è di 364 euro al Nord, 280 al centro e 221 al Sud-Isole. Però, i posti disponibili sono molto più razionati nel Mezzogiorno: in Puglia, Sicilia e Calabria il grado di copertura è prossimo all’1 per cento. Per vaste zone del Sud il costo rappresentativo è dunque quello di una baby-sitterche copra l’equivalente di un tempo pieno all’asilo nido, ma un esborso pari alla retta media dell’asilo al Nord consentirebbe di pagarla meno di 3 euro l’ora. Troppo poco, perfino per il mercato informale del nostro Mezzogiorno.
Una proposta: l’indennità locale
Vale la pena ricordare che in un noto lavoro di qualche anno fa Vincenzino Patrizii e Nicola Rossi hanno stimato scale di equivalenza del reddito basate, tra l’altro, su indicatori di domanda rispetto all’offerta. Secondo queste scale, posto uguale a 100 il costo della vita per una famiglia di tre componenti residente nel Nord–Ovest del paese, al Sud e nelle Isole la stessa famiglia avrebbe speso il 18,8 per cento in più per raggiungere lo stesso livello di benessere, soprattutto tenendo conto dell’inefficienza dei servizi sociali e sanitari.
La carenza di servizi a prezzi accessibili va affrontata con politiche specifiche. Ma è anche una ragione forte per non declinare il problema del costo della vita in termini Nord-Sud. Se le statistiche sul costo della vita vengono riviste secondo criteri analoghi a quelli impiegati da Patrizii e Rossi è probabile che a emergere siano differenze non tanto fra le due macroaree del paese, quanto fra aree metropolitane e piccoli comuni.
Il problema diventa allora misurare adeguatamente e “compensare” le differenze evitando procedure distorsive. La nostra proposta è di includere in sede di contrattazione salariale la possibilità di erogare una indennità locale limitata ad aree significativamente al di sopra del costo medio nazionale della vita opportunamente ricalcolato. Nel ricalcolo del costo della vita si dovrebbe tener conto della disponibilità, oltreché del prezzo, di alcuni servizi indispensabili a chi lavora e si dovrebbe scegliere come unità locale di riferimento il capoluogo di provincia o, se la rilevazione lo consente, i sistemi locali di lavoro. Una volta ricalcolato il costo della vita, si può identificare una “soglia di tolleranza” al di sopra del valore medio nazionale e affidare alla contrattazione fra le parti la libertà di tenerne conto laddove questa venga superata.
Il vantaggio della proposta è la possibilità di compensare i lavoratori di località con un costo della vita decisamente superiore alla media nazionale, invece di colpire indiscriminatamente i salari dei lavoratori meridionali che il mercato ha già tagliato. Un possibile svantaggio sta nella complessità del calcolo e dell’individuazione della soglia di tolleranza, ma lo si può superare impiegando pochi esperti qualificati in un istituto di ricerca che offra le necessarie garanzie di indipendenza.
Francesca Bettio e Fernanda Mazzotta, da “LaVoce.it”, novembre 2009