di Filippo La Porta
Come parlare oggi di Dante a scuola? Una figura monumentale, distante da noi, con le sue certezze metafisiche, la sua fede granitica di uomo del Medioevo, la sua visione di un universo stabile: possiamo dialogare con lui senza “ attualizzarlo”, senza cioè appiattirlo riduttivamente sull’orizzonte del presente?
Fortunatamente Dante-personaggio nella Divina commedia inciampa continuamente, scivola, sviene, incespica. In questo ci somiglia, così come nel suo petulante interrogare il paziente Virgilio su ogni cavillo. Ma è soprattutto il Dante “ etico” quello capace di illuminare la nostra esperienza di abitatori del Terzo millennio, smarriti e “senza fe’”, proprio perché risale alla radice dell’idea del bene e del male. Ho provato a rileggere la Commedia alla luce di una folgorante citazione di Simone Weil: “ È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”. E per dare realtà al prossimo bisogna desiderare che esista. Dunque l’etica fa esistere il mondo (nella sua inesauribile varietà e bellezza), mentre è Lucifero che non vuole che esista nessuno all’infuori di lui. In Pasolini e in Elsa Morante mi colpiva l’abitudine di dire non tanto “azione buona” o “azione cattiva” quanto “azione reale” e “azione irreale”.
Provo a tradurre. Non si deve essere prepotenti, ipocriti, ingannevoli, disonesti, etc. non perché si disobbedisce a un precetto ma perché in questo modo si finisce nella irrealtà, in un mondo desertificato, mentre empatia, sincerità, rispetto verso gli altri, etc. ci mettono nel cuore della realtà, che è soprattutto relazione. Se applicate questo schema alla Commedia troverete conferme sorprendenti. I sette peccati capitali tolgono tutti realtà all’altro e lo sostituiscono con una costruzione fantasmatica.
Nei tanti incontri che ho a scuola vedo che i ragazzi si appassionano a questa possibilità di fondare la morale in modo non moralistico, non sul senso del dovere ma sul riconoscimento della realtà, nella sua interezza. Le domande più ricorrenti sono infatti: “ Ci spieghi meglio, nella vita quotidiana, la sostituzione di bene e male con i concetti di realtà e irrealtà?”, o “ Com’è possibile che proprio la ipertrofia dell’immaginazione generi il male?”. Una volta ho risposto con l’esempio dei ragazzini che uccisero i genitori poiché immaginavano un mondo senza genitori e divieti, dunque un mondo del tutto irreale. L’immaginazione è come il colesterolo: c’è quella buona, che intensifica il sentimento della realtà, e quella cattiva che invece lo dissolve nella nebbia delle fantasticherie ( l’avaro si illude di poter possedere qualcosa, il superbo si ritiene superiore agli altri, l’invidioso immagina le vite degli altri come perfettamente realizzate…). In particolare c’è una scena che cattura l’attenzione degli studenti, quando Dante e Beatrice penetrano nella luna così come “acqua recepe raggio di luce permanendo unita” ( un raggio di luce entra nell’acqua senza scompaginarne l’unità). Dare realtà all’altro è riuscire a interagire con lui ma senza violare la sua integrità, il suo ritmo personale e unico. Una suggestione rivolta specialmente agli educatori. Ma la scena forse più sconvolgente per gli studenti è quando Dante nel purgatorio davanti agli invidiosi — una folla di poveri ciechi — decide di abbassare lo sguardo perché loro non vedono lui, e se lui li vede li “oltraggia”. Dare realtà può anche significare abbassare lo sguardo: l’etica è ristabilire una simmetria. I classici sono imprescindibili, però bisogna farli parlare. Un compito riservato a noi mediatori culturali, non molto distante dall’impegno di Dante a dare voce ai morti, alle anime che incontra nel suo viaggio temerario.
(da “Repubblica.it”)