Il “prete dei mutilatini”, don Carlo Gnocchi, è stato proclamato beato, questa mattina alle 10, sul sagrato del duomo di Milano. E’ la circostanza più piacevole di quest’ultima domenica del mese di ottobre che vede il popolo del Pd chiamato a scegliere il proprio candidato nelle primarie che si tengono i tutto il Paese, e che ha visto un uomo pubblico, come il presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo ,“incastrato” in una storiaccia che lo vede protagonista in un appartamento di Roma insieme con un transessuale brasiliano. Riprendo un po’ il filo rosso dell’ultimo intervento del ministro dell’Economia Tremonti quando, parlando di lavoratori, (pare allora che abbia fatto un voltafaccia rispetto alle primitive convinzioni) annunciava il “valore del posto fisso” nel mondo del lavoro, andando proprio a sconfinare a sinistra in uno dei tanti cavalli di battaglia dei partiti dell’opposizione. Valori. Mi sembra, allora, che parlando di contenuti, quello più grosso e di spessore sia di stretta pertinenza di questo piccolo e smunto pretino dell’hinterland milanese nato nel 1902, il futuro cappellano degli alpini, futuro fondatore di una grande opera di carità. Il prete che seppe chinarsi sui sofferenti. Mi è rimasta impresso una frase pronunciata dal nostro: «Meglio fare il chierichetto piuttosto che il Balilla». Difatti la sua crescita ed esperienza in questo mondo va di pari passo con la dittatura fascista, con l’affermazione del maestro elementare di Predappio e con la conseguente guerra mondiale. Fascista, allora? Militarista? C’è contraddizione in tutto questo per un uomo che ha professato la sua fede al vangelo del profeta di Nazareth? Troppo facile cogliere quest’aspetto. Ma non credo che sia stato o sia avvenuto per questa ragione. Il suo, semmai era puro desiderio di stare vicino all’uomo-soldato. Scrive, infatti, un suo biografo: “Voleva per stare vicino ai suoi ragazzi e portare anche lì la parola di Dio”. Per questo eccolo sul fronte albanese con la divisione Julia e poi cappellano sul fronte russo e tra gli alpini della Tridentina nella storica ritirata dal fiume Don. “Padre, le affido mio figlio”, racconta sempre il biografo e lui risponde: “Ci penserò io”. E’ da questa situazione che prende ali e corpo il suo disegno, che avverte la strada della chiamata del Signore. Da questo disastro militare inizierà la sua missione che lo vede in prima fila nell’aiutare i “mutilatini” di guerra, poi i bimbi rimasti soli: si concretizza il grande disegno di carità che ancora oggi funziona. Ma c’è ancora un altro aspetto che mi piace evidenziare. Non ho conosciuto personalmente Don Gnocchi, ma sono venuto in contatto con le persone che l’hanno frequentato e che gli sono stati vicini nell’ultimo periodo della sua vita, prima che “il solito e incurabile male” lo riconducesse al padre il 28 febbraio 1956. Erano persone handicappate (o come si dice meglio oggi “diversamente abili”); un handicap fisico, che costringeva alcuni ad andare in carrozzella, quando volevano muoversi da un posto all’altro. Sono rimasto con loro a parlare diverse ore e quello che mi ha stupito era la loro serenità, tranquillità nell’affrontare il male che così ferocemente si era accanito sul loro fisico. Intendevano quella “privazione” come un privilegio che permetteva loro di capire molte cose che altrimenti non avrebbero preso in considerazione. Capovolgevano i metri di giudizio che la nostra società, quella moderna che ci regala molte conquiste ed esperienze semplicemente impensabili quaranta anni fa, ci ha abituato a prender in considerazione, liberando la bellezza dell’anima. Era come se, quando parlassi con loro, fossi trascinato dal loro entusiasmo nel “vivere la vita” con pienezza di animo e di spirito. Un giorno passatoi non era un giorno perso, un giorno in meno della nostra vita che faceva avvicinare la macchina al “grande giorno” del trapasso, ma l’occasione avuta per regalare un po’ di bene all’altro. La persona non era un ingombro, messo nell’angolo di sala per non dar fastidio o tenuta in camera per non “disturbare” le persone che vengono a trovare il capofamiglia. Ma una rochezza, un dono che elargisce bontà, disponibilità. Oppure semplicemente amore. Si sentivano importanti nella misura in cui avvertivano che “erano qualcuno”; che anche loro facevano parte di un unico disegno che portava nella direzione del Bene per gli uomini. Protagonisti, dunque. E tutto questo lavorio intellettuale lo dovevano a questo piccolo prete smunto, dimagrita, ma con un grande sorriso nel volto. Ne arano innamorati; ma al di là di questo avvertivo la Grazia che era in loro, nelle loro anime, nelle loro storie (molte di disperazione, di abbattimento da cui sarebbe stato difficile uscire, se non si fosse presentato sul loro orizzonte, questo piccolo uomo vestito di nero). Così ho conosciuto Don Gnocchi, l’ho imparato ad apprezzare, stimare. E oggi, sapendolo agli onori degli altari, non posso che sentire pieno della consapevolezza che anche tra gli uomini, così invischiati e presi dalle loro bassezze morali, spicca, come una bellissima mammola nel bosco, il dono del Sublime.