Il pallone da gioco si è sgonfiato, ma non all’improvviso…

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Una domenica senza calcio. Ma, francamente, ce ne siamo accorti? Con il caldo africano che ancora sovrasta nei nostri cieli, il bel tempo e le temperature tenute alte dall’anticiclone del basso Mediterraneo (nonostante che questa mattina abbia soffiato sulle coste tirreniche un vento fresco da nord), diciamocelo pure: pochi o punti hanno sentito la mancanza dell’appuntamento con gli atleti in pantaloncini che calciano un pallone su campi verdi. Siamo troppo a ridosso delle vacanze agostane per averne sentito  la mancanza.

Eppure, i calciatori, nella recente storia dell’Italia pallonara, hanno messo su uno sciopero. Sì, hanno disertato l’appuntamento classico con gli spogliatoi anche loro, e hanno anche fatto intendere le ragioni per cui non sono scesi in campo e non hanno fatto iniziare regolarmente il campionato di seria A del nostro Bel Paese. I mass media nazionali ci avevano detto e ripetuto che i giocatori non avrebbero indossato le casacche delle società per le quali militano “senza aver ottenuto la firma nel contratto”.

Adesso, noi del pubblico impiego ma anche i dipendenti delle fabbriche e tutti gli altri lavoratori,  sappiamo quanto sia importante il contratto di lavoro (fresco nella memoria il ricordo degli “autunni caldi”), per cui c’è in noi il massimo rispetto. Però, sempre stando ai commenti che illustri rappresentanti della carta stampata hanno espresso, non è tutto oro quello che luccica ed è per questo che siamo andati a vedere i motivi del dissenso dei giocatori con le loro società. E abbiamo capito che i punti controversi sono fondamentalmente due (riguardano l’articolo 4 e l’articolo 7). Quest’ultimo parlerebbe dela possibilità data alle società di far allenare separatamente dal gruppo alcuni calciatori. La cosa non è accettata dagli interessati, in quanto si procederebbe a una discriminazione fra gli stessi atleti, distinguendoli tra i graditi e non graditi alle società.

E poi c’è l’articolo 4 che riguarda invece gli aspetti economici. Ossia  i calciatori non accettano l’inserimento di un comma o di un allegato al contratto che permetta alle società di “scaricare su loro stessi il costo di tassazioni straordinarie decise dal governo”, come il contributo di solidarietà che dovrebbe essere inserito nell’ultima manovra finanziaria.

E qui casca l’asino. I calciatori milionari si rifiutano di versare il contributo che è previsto dalla finanziaria, essendo dei “dipendenti” che incassano milioni di euro dalla loro professione. Ora è anche vero che la fame vien mangiando, ma chi ha, dovrebbe contribuire a dare a chi ha poco, in modo tale che il peso della crisi finanziaria del nostro Paese siamo distribuita più equamente e non fatta convergere sempre sui soliti cittadini onesti che  fanno il loro dovere con le tasse. Ora, che il mondo del calcio sia in fermento, in subbuglio, non occorreva che si aggiungesse questo avvenimento per farcelo capire (per il resto esso “cade” molto vicino allo scandalo delle scommesse sulle partite). Ma il nostro mondo pallonaro ha bisogno di una ricetta forte che metta a posto le cose e che non lasci simili ambiguità. Tutti hanno il diritto di dire la loro, ma a sentirli parlare tutti hanno ragione delle proprio richieste. Ma è proprio possibile che tutti abbiano ragione? O c’è una esagerazione nell’inquadrare e impostare il problema di fondo? A voi, miei cari affezionati lettori, la risposta…

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